Franco Basaglia

Il mondo dell’«incomprensibile» schizofrenico attraverso la Daseinsanalyse

Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968

«Giornale di Psichiatria e di Neuropatologia», 81, 471, 1953
Presentazione di un caso clinico

Jaspers definisce la fenomenologia lo studio dei fenomeni psichici coscienti, tali quali il malato li presenta. L’oggetto dello studio è dunque dato dai fenomeni liberi di contenuto che si evidenziano negli accadimenti psichici e nel loro modo di svolgersi; il fine di tale metodologia è l’investigazione delle fondamentali trasformazioni del fenomeno stesso e non della «funzione» che costituisce assieme al fenomeno il mondo interiore. Il fenomeno è rappresentato infatti dalle immagini sensoriali, le funzioni dalle operazioni; una cosa è la funzione, una cosa il suo oggetto. La funzione psichica infatti può alterarsi mentre il suo oggetto può rimanere intatto, cosi pure può alterarsi l’oggetto senza che la funzione muti.

Ciò che dunque a noi interessa è l’oggetto e precisamente l’oggetto nel suo divenire, nel suo trasformarsi.

L’indagine fenomenologica si compie attraverso la percezione interna e non attraverso un processo di introspezione, in quanto ciò che viene studiato con tale metodo è la appercezione dei fenomeni e le loro relazioni, per meglio dire il succedersi delle esecuzioni mentali. L’analisi fenomenologica si ottiene infatti dalla descrizione, la più fedele possibile, delle esperienze soggettive del malato e dalla loro classificazione, una volta che l’esaminatore abbia presentato dette esperienze al suo spirito, immedesimandosi nella vita del malato stesso. L’importanza di questa metodologia sta appunto nel mettere direttamente in gioco la persona del medico che non può restare al di fuori come esaminatore, ma deve partecipare direttamente, cercando di cogliere non il sintomo in quanto tale, il modo nel quale esso si manifesta.

Jaspers afferma infatti che non basta la descrizione del sintomo, ma tale descrizione dovrà suscitare nell’esaminatore le sue esperienze, qualche cosa di vissuto: solo cosi egli potrà vivere interamente e intensamente la descrizione di questo sintomo.

La ricostruzione fenomenologica puramente descrittiva è soltanto la preparazione ad una spiegazione causale; infatti i dati della coscienza hanno un riferimento reciproco che ci permette di giungere a tale spiegazione. In essa però il concetto di causa è diverso da quello che comunemente si applica al fenomeno del mondo esterno dove il nesso di causalità è ricostruito in maniera intuitiva, poiché in psicologia i componenti di coscienza vengono vissuti immediatamente. Dice infatti Jaspers: «Noi possiamo in tal modo comprendere che dei fatti psichici si generino gli uni dagli altri, ad esempio comprendiamo, ed è questo un metodo tutto speciale della psicologia, che l’uomo insultato entra in uno stato di collera, e che l’amante ingannato diventa geloso». Il modo nel quale noi ci avviciniamo per la conoscenza e la comprensione della nostra e della altrui vita, coglie soltanto dei nessi intrapsichici, non dà una spiegazione (un nesso cioè di causa ed effetto), ma una comprensione. Va tenuta quindi distinta dal metodo esplicativo il quale toglie alla coscienza elementi propri ad essa, poiché non bisogna confondere, e Jaspers lo insegna, il principio di causalità di ordine logico con quello di ordine psicologico.

In tal maniera Jaspers introduce il concetto di «psicologia comprensiva», conseguenza dell’osservazione fenomenologica di vari fatti successivi e di una loro posteriore classificazione in rapporto alla relazione di comprensibilità e non in rapporto ad una relazione di causalità. Sussiste dunque solo in forza del soggettivismo dell’esaminatore.

Di conseguenza le relazioni di causalità non potranno essere considerate come facenti parte del metodo fenomenologico al quale invece partecipa attivamente solo la relazione di comprensibilità: in senso psicologico infatti la causalità non può cadere sotto il controllo soggettivo dell’esaminatore, la comprensibilità ne è una diretta emanazione. Tuttavia nella concezione di Jaspers si resta interamente nel soggettivo e, anche quando tale soggettività viene oggettivata, il medico, pur penetrando il più possibile gli elementi indicativi, ne rimane staccato: in Jaspers vi è il timore di lasciare il campo empirico per trascendere ad elementi non abbastanza valutabili in un piano di realtà oggettivabile soggettivamente.

Anche Minkowski, pur accettando a grandi linee la «psicologia comprensiva» di Jaspers, non accetta di chiamare fenomenologica la descrizione e la dimostrazione dell’esperienza soggettiva; egli vuole cercare «dietro» l’esperienza soggettiva un punto centrale, l’asse che possa costruire l’oggetto di una descrizione. Egli afferma che ciascun fenomeno fondamentale e costitutivo della vita possiede un indice spaziale-temporale indissolubilmente unito nella sua concezione di tempo-spazio vissuti: ogni atto umano possiede di conseguenza un aspetto temporo-spaziale circa il passato, il presente ed il futuro.

La Daseinsanalyse di Binswanger, pur mantenendosi nel campo fenomenologico, non dirige esclusivamente la sua attenzione verso il fenomeno in quanto tale, né verso la sua descrizione soggettiva. Possiamo dire che l’analisi esistenziale sia un’investigazione antropologica, e come tale scientifica, diretta verso la totalità dell’essere umano e, a differenza di quella fenomenologica, verso la vita particolare dell’uomo, tale quale esso è posto nel mondo.

In questo modo l’opposizione fra soggetto ed oggetto non è più assoluta in quanto il soggetto esiste solo nella misura nella quale «è» nel mondo. È solo nel cogliere la proiezione dell’essere nel mondo di un individuo, il suo progetto, la maniera nella quale egli si apre al mondo, che potremo avere una visione del perché egli c’è: così il «progetto del mondo» e «il progetto di sé» vengono a coincidere.

Disturbi incomprensibili della personalità per Jaspers, disturbi del tempo vissuto per Minkowski e maniera anormale di essere nel mondo mostrano come la moderna psichiatria si sia orientata nella interpretazione delle alterazioni della vita psichica di un individuo non verso un disturbo della sua «natura», ma piuttosto (ciò specie per Minkowski e soprattutto per Binswanger) verso una anormale maniera di porsi nel mondo.

La psicologia tradizionale si rifaceva invece alla natura come principio di ogni cosa e portava come finalità non le varie manifestazioni dell’essere umano, ma i principi preorcimati entro i quali la natura avrebbe posto l’uomo, la pianta, ecc. Basandosi infatti su tali presupposti Krapelin impostò la sua fondamentale classificazione delle malattie mentali. Essa era divisa in tanti gruppi ognuno dei quali rappresentava un determinato corredo sintomatologico che derivava direttamente dalla natura dell’uomo e, se un individuo ammalava di una determinata malattia classificabile in un determinato gruppo, doveva di necessità concludersi in un determinato modo: così la demenza precoce doveva necessariamente concludersi nella demenza. Quindi i sintomi erano in funzione della natura e non questa in funzione dei sintomi: una legge preordinata esisteva in tutti i fenomeni naturali, determinando essi un principio e una fine. Così, come la somma di un numero di sintomi produceva la malattia, un numero determinato di elementi formava il sintomo. Ma nella preoccupazione di una sistematizzazione schematica, si lasciava da parte ciò che costituisce la coscienza e cioè la sua costante attività uniformatrice e produttrice e la impossibilità, di conseguenza, di costringere in uno schematismo as-sociazionista ciò che non poteva essere costretto in alcun modo: l’esistenza umana.

Ci si avvide così dell’insufficienza di tale catalogo di sintomi, soprattutto per l’impossibilità di spiegare « come» e «perché» si verificasse un determinato fatto anomalo.

La scuola psicoanalista portò in campo l’istinto e l’importanza di esso nel determinismo dei moti umani; tuttavia si partiva sempre dall’uomo come tale, o meglio dalla sua natura, facendo parte di essa pure l’istinto, attributo della natura umana, non sua manifestazione. Con queste nuove concezioni il concetto statico di Krapelin veniva dinamizzato poiché si offriva all’individuo una parte della sua naturalità, ma si escludeva vi potessero essere tante naturalità a seconda di come era quella data natura e si costituivano tuttalpiù gruppi di natura-istinto ai quali l’individuo apparteneva. Si ricadeva quindi, anche se in una visione più ampia e più dinamica, in un concetto prettamente naturalista.

Così agendo tali studiosi pensavano di aver trovato la spiegazione dell’origine dei disturbi psichici e potevano quindi comprendere ogni manifestazione dell’essere umano rapportando questa ad una sviata evoluzione della sua libido. Il come e il perché di un sintomo erano dunque spiegati: bastava saper indagare nella vita istintiva del soggetto e trarre degli elementi con i quali raddrizzare il suo inclinato stato. La spiegazione veniva quindi data a priori, lasciando come puri to indiscusso un fatto inspiegabile: la natura dell’uomo.

Lo studio fenomenologico dell’individuo, o per meglio dire lo studio delle sue manifestazioni, riveste invece un carattere del tutto diverso. Considerando infatti le manifestazioni dell’uomo come l’espressione della natura umana, noi potremo venire ad una definizione più esatta del come e del perché, in quanto una spiegazione a posteriori sembra più logica di una a priori e poi perché non si può fissare nulla di determinato e di statico in ciò che è estremamente dinamico come la natura umana. Potremo dire che una pianta, una volta seminata, cresce e non potremo aspettarci mai delle grandi modifiche da ciò che è la legge generale; nell’uomo non succede così poiché egli nasce, cresce e muore, ma possiede un’altra fondamentale attività: l’intelletto con tutte le manifestazioni ad esso inerenti. Egli agirà e si esplicherà in manifestazioni infinite ed ognuna di esse sarà essenzialmente diversa da quella di un altro uomo, pur avendo con lo stesso un elemento fondamentale costituito dall’essere uomo e soprattutto possedendo la stessa qualità d’istinto; e però egli si esplicherà in svariate manifestazioni, cioè in naturità che saranno sue ed esclusivamente sue.

La patologia mentale ce ne dà un esempio. Potremo infatti scorgere in un gruppo di ammalati dei sintomi fra loro abbastanza simili, ma nel loro aspetto fenomenologico ed esistenziale così dissimili da non poter sembrare rapportabili alla stessa malattia. Minkowski ce ne dà una dimostrazione quando parla della preoccupazione ipocondriaca di un ansioso e delle idee ipocondriache di uno schizofrenico in quanto esse, pur essendo nel loro aspetto sintomatologico simili, sono essenzialmente dissimili poiché il fondo mentale dei due individui (l’ansioso e lo schizofrenico) è del tutto differente. Potremo dare una diagnosi, ma a ciò non potremo aggiungere altro. Soltanto valutando le manifestazioni di un soggetto, la maniera del «suo essere nel mondo», del suo Dasein e non del suo «essere» potremo comprendere qualche cosa di più della sua individualità, della maniera nella quale egli «si è aperto» al mondo. È dunque attraverso le varie espressioni umane che noi saremo in grado di compiere questa analisi antropologica, non partendo da concetti aprioristici o dogmatici, ma rifacendoci soltanto al modo nel quale il soggetto che ci sta di fronte presenterà se stesso, tentando di scoprire attraverso le sue espressioni, non il loro aspetto contenutistico ma piuttosto «i contenuti per il significato modale che racchiudono» (Binswanger).

«I contenuti, gli avvenimenti a carica affettiva, – scrive Minkowski, – non sono che una parte della nostra vita; per comprendere l’importanza di un fattore causale è necessario conoscere su quale fondo dell’Io e del mondo del malato questo fatto causale ha giocato: conoscere il fattore della forma deh ‘esistenza, questo è l’essenziale».

Un avvenimento, per quanto pregno di affettività, non può essere dunque esaminato come elemento causale ma come partenza storico-vitale, cioè come causa rapportata al fondo dell’Io e del mondo dell’individuo, dunque come forma del contenuto, come forma dell’esistenza. Dice Binswanger: «Noi non portiamo la nostra attenzione soltanto sui contenuti racchiusi nella storia di una vita e sui rapporti manifesti o supposti che intercorrono fra i temi rilevati (come fanno gli psicoanalisti), noi non portiamo neppure la nostra attenzione su contenuti come rivelatori del gioco o delle turbe della funzione (come fanno gli psicopatologi quando constatano o suppongono una qualche alterazione della funzione del linguaggio o del pensiero), ciò che sostanzialmente richiama la nostra attenzione sono i contenuti delle espressioni del linguaggio come indizi, come comunicazioni per cogliere il mondo nel quale il nostro interlocutore è vissuto e vive, in una parola i contenuti per il significato modale che racchiudono: per intendere come quel particolare uomo che ci sta di fronte concepisca il mondo, scopra il mondo, si schiuda al mondo; insomma in che modo sia, cioè come esista».

Lo studio delle espressioni dunque, esaminate da questo punto di vista, ha aperto un campo di indagine del tutto nuovo dandoci la possibilità di entrare nell’essere della persona ammalata e di poter penetrare il suo modo di adattarsi alla nuova situazione determinata dalla malattia. Inoltre da ciò si giungerà al completo livellamento fra soggettività e og-gettività poiché l’«Io» viene a confondersi con il «Tu» della persona che sta di fronte così che il soggetto (ammalato) e il mondo (medico) non sono più due «cose» distinte, ma l’uno viene a completarsi nell’altro.

Una delle espressioni più significative della natura umana ci sembra sia «il linguaggio», non inteso come strumento atto ad esprimere le nostre idee ed i nostri concetti, ma come mezzo di tradurre in parole la vita stessa. Il linguaggio infatti costituisce l’espressione più genuina che l’uomo possieda nei suoi rapporti interumani poiché esso può essere considerato come la proiezione dell’individuo nel mondo: una manifestazione del suo «modo di essere», è il mezzo con il quale l’uomo esprime la propria individualità e soprattutto manifesta il suo aspetto modale rapportato a quello degli altri.

Nella Daseinsanalyse viene data infatti grande importanza all’esame del linguaggio, tanto da poter dire che la maggior parte della sintomatologia presentata da un ammalato di mente è espressa appunto e anzitutto da turbe di questo. Tuttavia, parlando di disturbi del linguaggio, non si intende riferirci all’interessamento di una funzione, ma alla trasformazione della struttura della sua organizzazione che va di pari passo sviluppandosi con la trasformazione globale del modo di esistere; ad esso dunque potremo giungere attraverso il disturbo del linguaggio che ne è manifestazione diretta.

I contenuti della storia di un soggetto non devono però essere considerati come indicatori della causalità della malattia al fine di scoprire particolari rapporti con l’interiorità di esso, ma devono venire intesi come «comunicazioni» del suo particolare «modo di essere»; il linguaggio quindi è usato come mezzo di accessibilità di una struttura esistenziale, venendo adoperati i contenuti non come scopo ma come inizio della conoscenza di un mondo individuale.

Questo in quanto non è sufficiente riuscire a comprendere la genesi psicologica di un determinato stato di malattia, poiché non si giungerà, con i dati in tal modo ricavati, a dimostrare al malato che la sua idea della vita non ha possibilità di realizzazione; ma soltanto dopo esserci immessi nella sua Weltanschauung potremo passare ad occuparci della psicogenesi del suo nucleo ideologico, per sforzarci di comprenderlo, immettendolo nella globalità della sua personale esistenza.

Non c’è dunque possibilità di comprensione psicologica di un individuo senza aver vissuto il modo in cui tale individuo ha concepito il mondo.

Per una maggiore concretezza dell’esame clinico vengono usati i test proiettivi, adoperando per la loro interpretazione lo stesso criterio di giudizio. Essi, escludendo il contatto diretto fra medico e malato, presentano una «situazione»1 che il soggetto è obbligato ad interpretare e risolvere secondo la sua particolare «visione del mondo».

Se infatti esaminiamo una determinata risposta ad una tavola del test di Rorschach e la schediamo secondo il comune metodo di classificazione, noi otterremo un risultato che, pur rivelandoci degli aspetti che l’esame clinico non ci aveva dato, sarà tuttavia un cliché dell’esame clinico stesso. Sarà necessario invece scorgere nella risposta data, l’aspetto rapportabile all’intrinseca maniera di essere del soggetto e l’espressione linguistica che tale soggetto ci offrirà, così esaminata, potrà chiarirci la visione che egli ha del mondo ed in quale rapporto egli sia con esso. L’espressione ricavata dal test sarà manifestazione della «naturità» del soggetto e solo attributo della di lui «natura di uomo».

Così, se nel colloquio clinico l’ammalato, per renderci partecipi del suo disagio interiore, ci darà un’espressione che solo intuitivamente potremo scoprire fonte di alterazione, potremo osservarla da due diversi punti di vista: secondo il primo tale espressione può essere considerata come una manifestazione che ci aiuta a schedare gli individui in determinate categorie, per il secondo essa potrà darci una visione della situazione in cui vive il soggetto. Se tale espressione sarà osservata secondo il tradizionale metodo di indagine, noi avremo soltanto la percezione di una instabilità interiore del soggetto e come tale essa ci apparirà inavvicinabile e comprensibile solo intuitivamente, quindi in un certo senso incomprensibile; come del resto può essere incomprensibile in termini psicopatologici l’azione o l’espressione linguistica di uno schizofrenico la quale ultima, come quella del nevrotico, ci avverte soltanto di uno sviamento dall’asse psicologico normale.

Da questo punto di vista il linguaggio, considerato nella maniera convenzionale, non è accettabile; necessita conoscere, attraverso lo studio delle manifestazioni umane, ciò che fa vivere l’individuo in quel particolare modo. L’esaminatore dunque dovrà vivere la «situazione» dell’ammalato, tentando di strutturarla, di ricostruirla rapportandola al proprio modo di essere, astraendosi dal fatto di aver dinanzi a sé un malato di mente e da ogni valutazione psicopatologica, così da potersi «incontrare e trovare» con l’ammalato su un piano di completa umanità. È necessario dunque ricostruire l’uomo-malato nella sua «umanità» e non nella sua «vitalità».

Seguendo questo metodo di indagine potremo veramente intendere il «come» del vivere di un individuo, senza lasciarci influenzare dal suo particolare modo di vedere il mondo che non è di per se stesso patologico, poiché, come dice Frankl, «anche se si rivela nell’esaminato qualche cosa di patologico, questo qualche cosa non consente un giudizio invalidante sulla di lui concezione del mondo. La categoria “sano-malato” vale solo per l’uomo e non per l’opera da lui prodotta, non per ciò che egli ha creato».

Così, come dalla pazzia di Van Gogh sono nati i capolavori di sole dei suoi quadri e non per questo essi sono meno valutabili e valutati, il fatto che colui che ha una determinata concezione del mondo sia sano o malato, non è sufficiente perché tale sua idea debba essere infirmata.

Dopo quanto abbiamo esposto ci sembra ora opportuno portare alla nostra trattazione un esempio, a nostro avviso molto significativo, dal quale potremo scorgere come, attraverso lo studio del modo di essere del soggetto esaminato secondo quanto ci insegna la Daseinsanalyse, siamo giunti ad una comprensione del suo «modo di essere» nella malattia.

Abbiamo scelto un caso di quelli che in psicopatologia sono definiti casi limite: esso è rappresentato da una schizoidia. Alla sua trattazione uniremo l’esame di Rorschach praticato, tentando di interpretarlo non in senso puramente formale, ma cercando di trovare nelle risposte la risonanza esistenziale con la quale esse sono state date.

C. Rita, 25 anni, diagnosi clinica: schizoidia.

Si tratta di un soggetto nella cui anamnesi famigliare si riscontrano tre cugini in secondo grado ricoverati più volte in Ospedale Psichiatrico, dei quali non è stato possibile accertare la diagnosi. La paziente è l’ultima di undici fratelli, tre dei quali sono morti (due in tenera età, uno per pericardite). Ha compiuto regolarmente le cinque classi elementari, senza manifestare particolari doti; mestruata a tredici anni il flusso si mantenne in seguito sempre regolare.

Fin dall’infanzia i genitori affermano che la paziente non era una bambina molto vivace, era timida, scontrosa, taciturna; era come essi dicono differente dai fratelli. Partecipava ai giochi dei coetanei nei quali si accontentava anche di ruoli secondari o addirittura restava spettatrice indifferente.

A scuola rendeva poco, la maestra la biasimava per il suo comportamento apparentemente apatico; tuttavia questo stato di indifferenza di fronte all’ambiente che la circondava non era in realtà tale in quanto la paziente dice di aver sempre sofferto di un terribile senso di inferiorità davanti agli altri, inferiorità che non viene esplicitamente spiegata né dalla paziente stessa, né dai genitori, né da una «realtà» oggettiva in quanto essa aveva tutte quelle doti comuni ad una bambina normale: era graziosa e sapeva compiere le prestazioni che le venivano richieste; tuttavia le sue azioni non corrispondevano mai alle sue aspirazioni. Essa reagiva a questo stato di cose in due modi: o si isolava ancor più e si fabbricava delle situazioni inesistenti, oppure reagiva mettendo in opera un processo di difesa: l’aggressività. Infatti frequentemente picchiava i compagni anche senza ragione e talvolta, anche in famiglia, reagiva in maniera inadeguata a degli stimoli modesti quando, per altri di maggior entità, essa invece rimaneva indifferente. A dieci anni, dopo una sfuriata della madre, fuggì di casa con l’intento di porre fine alla sua vita. I famigliari la trovarono infatti presso le rotaie della ferrovia in attesa del treno.

Verso i tredici anni sembra vi sia stata una normalizzazione del suo modo di comportarsi; la pubertà non portò grandi squilibri e la paziente continuò a vivere nel suo modo infantile, continuando a reagire agli stimoli esterni in maniera inadeguata: l’aggressività si alternava a periodi di isolamento, di rinserramento in se stessa, di esclusione infine dalla vita famigliare e dagli amici. A sedici anni fu oggetto del corteggiamento di un ragazzo, amico di famiglia. Tale prima esperienza amorosa non provocò in lei alcuna compartecipazione, neppure il fatto di essere amata le provocava piacere o dolore. Si manteneva estranea ed indifferente e solo dietro le insistenze dei famigliari accettò di fidanzarsi e dopo qualche anno la sua apatia si sciolse in un apparente affetto per il fidanzato.

È qui opportuno soffermarci sui rapporti che esistevano fra i due dopo la loro intesa: essi non erano dissimili da quelli con cui la ragazza soleva affrontare il mondo, cioè l’aggressività e l’isolamento. Nei riguardi del fidanzato l’aggressività si manifestava in maniera abnorme al punto tale che una volta essa tentò di strozzarlo per un futile motivo in cui era in gioco non tanto una azione spiacevole verso di lei, quando la coscienza improvvisa dell’antipatia sua per il fidanzato.

Lo scorso anno la situazione della paziente precipitò: frequenti crisi d’ira verso tutti, specie verso il fidanzato nei confronti del quale sorsero anche idee di gelosia, anche se, come si è già detto, essa non nutrisse per lui un profondo affetto. Più frequenti divennero i periodi di isolamento e di incapacità di inserirsi nella vita degli altri. Cominciarono a manifestarsi anche fenomeni di tipo xenopatico, rappresentati da fenomeni psico-sensoriali: incominciò ad avere allucinazioni auditive le quali consigliavano la paziente di porre fine alla sua vita per una ragione che esse tacevano; le voci non erano riferite ad alcuna persona nota, solo talvolta esse potevano sembrare quelle di una vecchia megera. Si manifestava inoltre una ripresa del senso di inferiorità che in forma più o meno lieve era stato presente in tutta la sua vita, accompagnato da uno stato di angoscia permanente.

Quando sopraggiungevano le voci la paziente lasciava la casa e si aggirava per le strade nella speranza che una macchina la investisse. Fuggi da una sorella che abitava in altra città, dalla quale fu riportata in famiglia da dove, consigliata da un medico, fu ricoverata in Ospedale Psichiatrico ove furono praticati venti coma insulinici dai quali ebbe vantaggio.

Dal settembre 1951 fino all’estate del ’52 la paziente stette abbastanza bene; sovente però si compiaceva di isolarsi a fantasticare; aveva pensato di partire con delle sue amiche per l’America, di sposare un americano, di trovare il «principe azzurro», si immedesimava nei protagonisti dei giornali a fumetti, nelle attrici del cinema ecc.

Dopo la morte di un fratello avvenuta nell’autunno del ’52 si ripresentarono gli stessi sintomi che avevano costretto la paziente al ricovero in Ospedale Psichiatrico l’anno precedente.

Vista in Clinica le fu consigliato ricovero. All’ingresso dice di essere molto spaventata del suo stato, presenta infatti un aspetto attonito; mentre parla, durante il colloquio clinico, improvvisamente si arresta con il volto esprimente terrore; interrogata non risponde e solo dopo circa cinque minuti dice di aver udito delle voci che la incitavano a scappare, ad andarsene, a farla finita. Interrogata su dette voci, ne comprende l’assurdità e si scatena una crisi di pianto e un turbamento dal quale la paziente deduce soltanto un terrore inspiegabile e una incomprensione per tutto quanto accade e per il modo per lei assurdo nel quale vive.

Abbiamo voluto presentare questo caso in quanto esso ci è sembrato molto utile per certi suoi aspetti sintomatologia che, pur potendosi porre nel gruppo della sindrome proces-suale ed in particolare nella schizoidia, investono caratteri che potremmo dire peculiari per una descrizione antropoanalitica.

Si è visto dalla storia come il nostro soggetto, fin dall’infanzia, soffrisse di un profondo stato di inferiorità e come la paziente tentasse di reagire a questa situazione in un primo tempo con un comportamento aggressivo; abbiamo visto inoltre come, con l’andar degli anni, tale stato di inferiorità assumesse un carattere che sconfinava dalla norma e come, già nell’infanzia, essa cercasse di isolarsi, di chiudersi in se stessa o per meglio dire di porre fra sé e il mondo un muro divisorio. Si potrebbe dire con Bleuler che tale modo di essere rappresenti «la incapacità di criticare il proprio mondo soggettivo confrontandolo con la realtà esterna, con la conseguenza di una incapacità di adeguamento ad essa»; si manifestava in definitiva il fenomeno dell’autismo che, nella nostra paziente, costituisce il nucleo della sua malattia.

Il compito che ci siamo proposti è di descrivere e approfondire la maniera nella quale il Dasein nel caso del nostro soggetto si comporti verso il proprio essere, cioè come esista. Se esaminiamo la sua «vita» vediamo come essa sia sempre stata dominata dal senso di inferiorità, di diffidenza, di sospetto, talvolta di invidia, di odio e di tormento. Invece di chiederci, come in psicologia ed in psicopatologia, quale di queste situazioni sia primaria o secondaria ci chiediamo: come deve essere inteso un Dasein che si presenta in tal modo? La risposta a ciò viene dall’indicazione del carattere strutturale della sua forma esistenziale, rapportato alla struttura ed alla forma esistenziale del Dasein umano.

Sarà essenziale alla comprensione analitico-esistenziale mettere in evidenza come vi sia sempre stata una mancanza di sicurezza nel proprio «esserci», nel «Tu» reale e come questo «Tu» si disperdesse con la risultante di un rimpiccioli-mento della struttura esistenziale, il che mostrava come l’essere stesso fosse in pericolo (intendendo per «essere» quel modo di singolarità essenziale che ci pone di fronte a noi stessi: il mondo interiore). Perché quando l’esistenza non è sostenuta dalla possibilità di rapporto nel modo «duale e plurale», essa non può rivelarsi al proprio Dasein come un «esserci singolare» e non esistendo possibilità di rapporto dell’Io con se stesso (modo singolare) il soggetto è costretto a precipitare totalmente «nel mondo».

Di un individuo, quindi, che non si risolve né in se stesso né negli altri si può dire che il Dasein è tanto rimpicciolito nella sua struttura che le forze che dovrebbero portarlo con sicurezza nella vita si rivolgono, come elementi ostili, contro di lui.

Vediamo infatti dalla storia di R. come, fin dall’infanzia, essa fosse impossibilitata a risolvere se stessa in quanto incapace di creare una comunione con il mondo famigliare e con quello al di fuori di esso: la scuola e i giochi. Il mondo esterno veniva dunque a convergere su di lei e a comprimerla così da impedirle di espandersi e di esplicarsi. Essa reagiva talvolta aggredendo e talvolta isolandosi, trovando in questo suo modo di essere una ingannevole maniera di «liberazione». Infatti il tentativo di liberarsi dalle strettoie del processo di «rimpicciolimento» finisce invece con il precipitare più rapidamente in esso.

Rimpicciolimento dell’«esserci» significa restringimento delle possibilità esistenziali verso una possibilità esistenziale ben determinata, non più dotata di libere possibilità ma dettata dal mondo, significa «mondanizzazione» dell’esistenza nel senso di un decadimento insuperabile di fronte al mondo: al mondo esteriore, al mondo del contatto e a quello interiore.

Crollo «nel mondo» significa quindi debolezza esistenziale, mancanza di solidità dell’Io, perdita dell’Io nell’esistenza: autismo.

L’autismo non significa in definitiva regresso fuori del mondo e regresso da se stesso ma piuttosto soggiogamento dell’Io di fronte al mondo; non è quindi da considerare che il pensiero e l’azione autistici non tengano in alcun conto la realtà perché il Dasein si è in certo qual modo ritirato; ma piuttosto perché il mondo l’ha assorbito.

Per Binswanger quindi la vita spirituale schizofrenica non si deve interpretare nella maniera normale della vita spirituale nella quale noi ci immedesimiamo, ma piuttosto intenderla in un senso impersonale e neutrale come ci insegna la Daseinsanalyse.

La certezza di questo dover soggiacere all’ineluttabilità della sconfitta dell’Io spinge a schivare il contatto con il mondo, alla conseguente perdita di esso, perdita che non deve dunque essere ricercata alla radice ma piuttosto nel tronco del processo schizofrenico.

Prima di giungere a questo soggiogamento del mondo, abbiamo visto dalla storia come il nostro soggetto vivesse in un continuo stato di allarme, in un’ininterrotta paura della catastrofe; costantemente essa viveva in una sfiducia, in una paura di sé, in una permanente ricerca di difesa, in un’animosità, in un isolamento. La paura di una minaccia occasionale, come situazione di momentaneo pericolo, si trasformava nell’essere minacciata da un pericolo abituale e continuo. Il senso di inferiorità in cui essa viveva era un indice di questa costante maniera di porsi di fronte al mondo; quello che si dice «essere in un senso (momentaneo) di inferiorità» era per lei diventato una maniera abituale di vita, una maniera di asservimento al mondo.

Di qui sono comprensibili la diffidenza, il sospetto, l’odio e tali sentimenti non sono che il presupposto di una svalorizzazione del mondo. Il malato che dà un giudizio negativo sulla vita per una sua incapacità ad affrontarla, ha questa convinzione quale frutto di una sua «intuizione» più che di una «riflessione» in quanto il suo «esserci» è rinchiuso in una precisa determinazione, rifiutando in maniera decisiva ogni giudizio su un valore positivo.

L’equivalente sintomatologico a questo modo di essere si esprime con un altro mezzo prima di cadere nell’astrazione, nell’autismo: il negativismo, espresso dall’aggressività alla quale la paziente si aggrappa prima di essere preda dell’astrazione stessa. Tale fatto rappresenta l’ultimo sforzo per farla finita non solamente con se stessa ma anche con gli uomini e le cose, per svincolarsi da essi, per liberarsi dal tormentoso irretimento in essi.

Tale tentativo lo vediamo quando R. scappa da casa per un rimbrotto dei famigliari e vuole uccidersi. Pur accadendo ciò nell’infanzia, è indice della sua anormale maniera di porsi nel mondo poiché, sebbene la sua famiglia avesse per lei un atteggiamento di opposizione, essa rappresentava per la paziente il luogo dove poteva esplicare se stessa e che in certo modo la difendeva dalla strapotenza del mondo.

Viene detto dalla storia che anche dopo l’età puberale non si manifestarono particolari deviazioni dal modo di vita che la ragazza aveva condotto nell’infanzia. Il suo mondo infantile si mantiene anche nella adolescenza e l’astrazione nella quale essa aveva vissuto, si concretizza in questa nuova epoca evolutiva trovando alimento in particolari situazioni che a tale stato contribuiscono: i progetti con le amiche, i film sentimentali, i giornali a fumetti le permettevano infatti di allargare e stabilizzare questa sua astrazione.

I rapporti con l’altro sesso la interessavano soltanto in quanto essi le davano la possibilità di allargare il suo corredo di di astrazione: sognava nei giovani che essa vedeva il «principe azzurro» con tutte le fantasticherie ad esso inerenti. Tuttavia non riusciva a trovare ciò che desiderava neppure nell’astrazione in quanto anch’essa era deformata. Infatti, una volta rifiutato il mondo, non era per lei possibile trovare in esso situazioni concrete su cui basarsi; tali situazioni le permettevano soltanto di allargare il suo «orizzonte astratto».

La concezione ideale che essa creava urtava e strideva sempre con le situazioni reali che le si presentavano, di fronte alle quali essa non poteva essere preparata.

Ciò si evidenziò abbastanza chiaramente quando la paziente fu l’oggetto del corteggiamento di un amico del fratello, verso il quale non aveva alcun sentimento affettivo: ciò non perché preferisse qualche altro ragazzo, l’uno o l’altro per lei erano la stessa cosa, essa desiderava soltanto che il mondo astratto in cui viveva non trovasse nella sua vita reale un corrispondente concreto.

Tuttavia «imparò» ad amare il corteggiatore come amava la sua famiglia della quale il giovane era divenuto parte integrante e si adattava ad accettarlo, e accettarlo significava accettare il rapporto con il mondo, togliersi dalla astrazione attraverso la quale aveva trovato il modo di tagliare i ponti con la vita. La paziente stessa ammette di essersi forzata in questa nuova situazione che la fece ripiombare nel negativismo, nell’aggressività e nelle crisi di autismo. Ebbe infatti violente crisi d’ira con il fidanzato in quanto, anziché vedere in lui l’amore nei suoi riguardi, essa riconosceva in ogni atto una conversione dello stesso in odio verso di lei. Il fidanzato rappresentava allora per lei la sopraffazione degli altri sulla sua personalità.

Si veniva così a riscontrare un cambiamento di situazione: cambiamento di situazione significava per lei contemporaneamente cambiamento dell’Io. Si delineavano più chiaramente i periodi di autismo e si manifestavano idee di gelosia, espressione di soggiogamento al mondo in quanto essa vedeva ovunque forze in agguato contro di lei; si sentiva limitata, costretta, rimpicciolita e per sfuggire ripiombava nella astrazione.

Quando una situazione perde del suo contenuto reale, come nel nostro caso, ne rimane soltanto il contenuto astratto, l’Io non risponde più, non ascolta più, non ha più il suo «contatto», preso com’è dalla «astrazione». Il pensiero allora non urta contro alcun ostacolo, può agire nettamente in contrasto con la realtà: in tal modo esso procede più facilmente fino a quando dovrà affrontare e risolvere una situazione pratica, un compito concreto; allora tale compito fallisce per il simultaneo svanire del senso dell’Io.

Come si è visto dunque R. è cresciuta senza mai acquistare la sua indipendenza, il suo Dasein non è mai stato se stesso, ma sempre soffocato perché trattenuto; non è mai diventato indipendente in quanto non è mai avvenuto l’incontro con il «Tu» e di conseguenza non è mai pervenuto a se stesso, continuamente ostacolato nel suo vero poter essere, imprigionato nella visione retrospettiva e tagliato fuori dall’avvenire. Quando il rimpicciolimento di questo Dasein è completo avviene la catastrofe: ciò che fino allora è riconosciuto come continua possibilità di «essere preda» del mondo, diviene certezza. L’indeterminato, il vago, l’irriconoscibile, l’incompleto si presentano ad essa: la situazione esistenziale precipita, manifestandosi con l’aggrapparsi alla fantasia, ultimo tentativo disperato in cui R. cerca di sottrarsi alle forze del mondo «nel più miserevole degli a solo» (Kierkegaard).

L’inclinazione all’astrazione che riscontriamo è dunque una espressione della sua debolezza, del non «sapersela cavare» con la concreta vastità del mondo. Questa astrazione, questa mancanza di contatto, in breve l’autismo come si è già accennato, non costituiscono il sintomo primario della schizofrenia ma sono soltanto manifestazione parziale del Dasein schizofrenico, del suo soggiacere alla strapotenza del mondo e del tentativo di sostenersi in qualche modo in esso.

Questo prevalere del mondo su di lei si manifesta con una deformazione spazio-temporale: l’indeterminato, il vago, il terrore impreciso, la vicinanza schiacciante di qualche cosa che la paziente non sa definire, la fanno fuggire con la visione di qualche cosa che urge, qualche cosa di immediato e di incorreggibile. Con ciò l’Io perde completamente il suo appoggio nel mondo, il Dasein non si accorge e non riconosce il posto che ad esso spetta, l’Io non è dunque più indipendente ma si abbandona al sospetto, ne viene sopraffatto; in tal modo l’Io dipende dal sospetto, non è più padrone di sé, viene preda dell’influenza del mondo, del pericolo: luogo, tempo e persone delle azioni indietreggiano e svaniscono.

In tal modo assistiamo ad uno spostamento passivo di una situazione antecedentemente attiva; assistiamo cioè al cadere in un modo di esistere senza speranza e pieno di paura. Quando la paura si isola, allora giungiamo al pessimismo, alla depressione, alla sindrome di influenzamento, al delirio di persecuzione. Tale nuovo modo di essere nascondi: il mondo circostante nella sua vera essenza, cioè lo fa vedere come una forza terribile e minacciosa.

Ciò che distingue infatti le immaginazioni della pazzia da quelle della paura è il fatto che in quest’ultima l’esistenza dispone liberamente nelle sue possibilità d’essere, vi è la possibilità di riprendersi, di attaccarsi a qualche cosa, mentre quando si è in preda dell’indefinito, indifesi di fronte al terribile senza nome, al perché senza risposta, l’esistenza non può sorreggersi, perde la sua solida base e «fissa l’abisso senza fondo» (Binswanger). Di qui il passaggio dal mondo dell’autismo alla sindrome di influenzamento e al delirio il passo è molto breve; per Binswanger è importarne ricercare nella storia del malato questi passaggi che da una idea sopravalutata, cioè da una posizione attiva, si spostano ad una passiva attraverso l’acme rappresentato dal fulcro del dramma esistenziale: l’essere in preda al pericolo, il vedere ovunque pericolo.

Binswanger parla di vero delirio solo quando, da una situazione come egli dice atmosferica o astratta di terrore si scopre la presenza di qualche cosa di determinato come l’essere perseguitato da nemici, e da particolari nemici. Mentre nella fase della paura vi è ancora un tentativo di affermazione dell’Io che non trova comunicazione con gli altri, ma può condurre solo discorsi con se stesso, troviamo invece nel delirio un Io che cerca in maniera del tutto particolare di riunirsi al mondo, che descrive, lamenta ed accusa e tale Io non può essere considerato come puramente autista. È un Io oltremodo comunicativo e bisognoso di comunicare, un Io però sfuocato e come tale i suoi rapporti saranno disarticolati e inconsueti. Non è il caso di analizzare il delirio nel suo evolversi in quanto la nostra paziente non vi giunge completamente, ma piuttosto essa è nella impossibilità di rapportare il proprio Io al mondo circostante, sia esso quello normale che quello della pazzia; irretita in se stessa, soggiace al mondo e lo spavento ed il terrore anonimo la schiacciano.

La conseguenza più logica è rappresentata dal desiderio di farla veramente finita, di togliersi la vita. Tuttavia tutto ciò il suo Io non può deciderlo, perché impossibilitato e limitato nelle sue responsabilità e allora gli altri, il mondo, attraverso voci che ella ode, le suggeriscono di fuggire, non sa dove, non sa perché e di togliersi la vita. Essa sente la vita che fugge, la disintegrazione che progressivamente la prende, il vuoto che si fa sempre più totale attorno a lei e la conclusione, la liberazione da tutto ciò è il suicidio, come atto riflettuto, come conseguenza inevitabile, dettato non da una spinta di natura depressiva ma piuttosto da una logica conseguente di tutta la sua vita.

Ben differente infatti è il suicidio del depresso in quanto la tristezza di questo deriva dalla coscienza del proprio stato ed egli fonde tristezza e coscienza di essa. La persona che è in tale situazione si dissolve e la paura della morte che sempre la perseguita diviene elemento determinante nell’atto della sua depressione. Questo gesto dunque, che è una risultante della depressione morbosa, diventerebbe un sintomo piuttosto che un’azione motivata, mentre invece tale non è nel caso dello schizofrenico in cui coscienza e tristezza del proprio stato sono due elementi intellettivi distinti e non uno sovrapposto o intrecciato all’altro. In tale modo il suicidio nello schizofrenico non è un sintomo della malattia ma una conseguenza logica di porre fine ad una limitazione che dall’esterno urge su di lui.

L’atto dunque che R. certamente avrebbe compiuto viene ostacolato ed impedito dal ricovero in Ospedale Psichiatrico dove subentra un nuovo periodo della sua vita.

Questa situazione, che è al di fuori di lei e del suo mondo, le dà la possibilità di essere, poiché nessun compito le viene richiesto tranne quello di esistere e nessuna responsabilità le viene affidata.

La terapia biologica che certamente ha contribuito a riorganizzare il suo equilibrio organico è stata senz’altro utile a ridarle una certa stabilizzazione, a rafforzare il pur debole equilibrio psicologico creato dal suo ricovero, così da far nascere in lei la speranza di poter «cominciare di nuovo», piena di un desiderio a lei sconosciuto di affrontare il mondo che fino allora aveva subito. Ma appena giunge al contatto con il mondo, al di fuori dell’oasi che si era creata, tutto ritorna come prima: vi è in lei la sensazione di qualche cosa che la minaccia e lo spazio, che si era ridotto ai limiti della sua umanità, torna ad essere illimitato ed essa non può più contenerlo; il tempo per lei è ridiventato una parola in quanto tutto urge e non vi è possibilità di porre freno agli avvenimenti che incalzano. La «libertà» momentaneamente acquistata torna a convertirsi in una situazione di irretimento; in poco tempo la situazione precipita con le stesse caratteristiche della prima volta.

Ci sembra ora opportuno notare che tale seconda «catastrofe» ha avuto la sua apparente origine (da non intendere «causa») da un fatto a forte carica emotiva (la morte di un fratello cui sembra R. fosse molto affezionata). Sembrerebbe che questo avvenimento, pregno di affettività, possa essere stato il punto di partenza storico-vitale dell’attuale sintomatologia. Pur presentando le stesse caratteristiche della volta precedente, nella descrizione dell’ammalata ora riaffiora sempre il ricordo del fratello che non è sentito con le note ad esempio di uno stato depressivo reattivo ad un tragico evento, ma piuttosto come una presenza ormai diluita nel tempo da cui è stata «lanciata» nel suo precedente squilibrio.

Se vi sono presupposti esistenziali per spiegare la nuova «maniera di essere» nella malattia di R., tuttavia essi non devono essere considerati come elementi affettivi che si staccano da altri incontrollati sprigionantisi dall’inconscio e come unici nel determinismo della malattia, ma come origine casuale, come occasioni per un proseguimento del processo in quanto il Dasein dell’individuo, come dice Binswanger, comprende «l’anima e il corpo, il cosciente e l’incosciente, il pensiero e l’azione, l’emotività, l’affettività e l’istinto» e qualunque stimolo agente su qualunque aspetto di tale Dasein può portare l’individuo in una determinata «maniera di essere», nel nostro caso, nel processo schizofrenico.

Test di Rorschach. Tempo totale: 35′.

I. 25″ Rocce che stanno cadendo, come si sia rotta una montagna (tutto)

II. 60″ Macchie di sangue (rossi superiori)

Rossetto, qualcuno ha messo la bocca, una signorina (rossi inferiori)

III. 50″ Pesci (gambe dell’omino)

Due macchie d’inchiostro (tutto)

(additiva: galli – rossi superiori)

Nastro con ciocca (rosso centrale)

IV. 7″ Stomaco di una persona (tutto)

Due occhi (gli occhi del mostro)

Fumo e dietro è nascosta una persona (tutto)

V. 15″ Un pipistrello (tutto)

VI. 20″ Una statua di marmo (totem), non come le solite, uomo gran cattivo che non si è mai visto sulla terra

Cascata d’acqua (linea mediana)

VII. 20″ Sembrerebbero nuvole se non ci fosse questa (tutto) –

(appare infastidita dalla linea centrale)

VIII. 23″ Pecore, stanno camminando sul bagnato, sull’acqua, sul fango insomma (tutto) –

sembra che una delle due si specchi sull’acqua Sangue quel rosso

IX. 25″ Due facce, due vecchi con la barba stanno guardando (rosa inferiore)

Sembra come l’obelisco di una piazza (linea centrale)

X. 27″ Bestia, ma non saprei che bestia, di quelle in fondo al mare (centro inferiore)

Spugne che vivono sotto il mare (tutto) – cose che cadono nell’acqua.

Commento antropoanalitico del test di Rorschach.

Nel commento che ci accingiamo a trattare ci limiteremo soltanto ad interpretare i contenuti delle risposte per il significato modale che in esse è racchiuso: ci rifaremo dunque al loro contenuto esistenziale.

L’analisi esistenziale del test rafforza e approfondisce maggiormente l’analisi clinica. Ritroviamo la posizione nella quale l’Io interpretante si pone di fronte alla nuova situazione imposta e che altro non è se non lo stampo delle situazioni nelle quali l’Io si trova nei comuni eventi della vita.

La deformazione e la perdita della spazialità e della temporalità si riflettono dunque nella quasi totalità delle tavole interpretate. Già la prima risposta: «rocce che stanno cadendo, come si sia rotta una montagna» (tav. I) mette in evidenza il dramma esistenziale della paziente che ha in sé viva la sensazione della caduta e della rottura; la spazialità non contenuta, la deformazione orizzontale della stessa vengono ben espresse anche dalle risposte del «rosso che si allarga», del segno lasciato dalla bocca di una donna (tav. II) e dalla macchia di inchiostro (tav. IV) ove ambedue le risposte che posseggono un senso di allargamento, mettono in luce l’impossibilità di un finito, ed evidenziano un distanziamento del suo Dasein rispetto al mondo, contro il quale essa ha una reazione di aggressività con «sangue» ai rossi superiori della seconda.

Il tentativo di dare un aspetto impersonale alle risposte non sempre è raggiunto: alla IV infatti la risposta «occhi» e poi «fumo, dove dietro è nascosto un uomo» esprimono la sua impotenza nell’allargarsi del fumo, espressione di una deformazione spaziale, che viene aggravata dall’urgenza, dall’aspetto temporale pure deformato: gli occhi e l’occultamento minaccioso di una persona. È il mondo che la circuisce e la schiaccia.

La VI «una statua di marmo» esprime il tentativo di razionalizzare lo spazio, nella speranza di attuarsi in esso in quanto viene avvertita la paurosa sensazione del suo svuotarsi, viene cioè perduto lo «spazio dell’oggettività emozionale», ove si proietta la vita interiore dell’individuo e nel quale vivono i suoi sentimenti: ad uno spazio emozionalmente vuoto corrisponde uno spazio esistenzialmente vuoto, quello spazio che Gebsattel chiama: spazio pietrificato.

Il tentativo razionalizzato di dar vita alla sua percezione con la risposta «una statua di marmo» può essere considerato, come lo sforzo di restituire qualche cosa di emozionalmente vissuto, senza il quale è impossibile qualsiasi maniera di essere nel mondo. Nell’inchiesta la paziente cerca di umanizzare la sua risposta, ma il risultato è la conferma della precedente: l’«uomo cattivo che non si è mai visto sulla terra» esprime come il suo Io non sussista più attivamente nel mondo ma lo subisca: l’impersonale statua di marmo diviene aspetto personale di forza ostile, astratta e la povertà spaziale della risposta si fonda nel modo temporale dell’urgenza rappresentata dall’«uomo cattivo».

La paura, l’inganno, il sospetto, così ben espressi con queste risposte, come d’altra parte erano pure evidenti alla IV «occhi, fumo dietro il quale c’è qualcuno», vengono ribaditi alla IX dove l’interpretazione riprende un tono impersonale «due facce, due vecchi con la barba che stanno guardando». Tutto dunque è non suo, la vita è ovunque e in ogni momento in pericolo.

La risposta alla VIII «due pecore che camminano sul bagnato, sull’acqua, sul fango insomma» esprime pure la coscienza della temporalità che urge nei suoi vari aspetti di caduta: bagnato, acqua, fango sono infatti le tappe di una caduta irreversibile, o meglio ancora di una compressione dall’alto verso il basso. I tentativi di ricupero messi in opera dalla paziente sono: le risposte di aggressività (espresse dallo shock al rosso, dal sangue) e le risposte di simmetria. Tali ultime risposte sono da considerarsi come un’aspirazione verso l’ordine, inteso come soluzione definitiva; vi è in esse un tentativo di geometrizzare, razionalizzare lo spazio.

La simmetria come espressione di razionalizzazione costituisce dunque un tentativo di sostituzione della mancanza del «sentimento delle cose», l’ultimo sforzo per non cadere davanti alle forze oscure del mondo ostile. La ricerca della simmetria – dice Binswanger nel suo caso di Jürg Zünd – è solo una tappa per liberarsi dalla sopraffazione del mondo attraverso il suo «livellamento geometrico» fino al nulla assoluto, fino al potersi ricostruire di nuovo o meglio fuori del mondo, della vita. La mancanza di contatto è in una parola la più o meno efficace conseguenza del tentativo di tramutare il mondo in nulla.

L’interpretazione antropoanalitica del test è stata da noi mantenuta divisa dalla analisi del caso con un preciso intendimento: per dare la possibilità di raffrontare come analisi clinica antropoanalitica e interpretazione antropoanalitica sperimentale vadano di pari passo, come sia possibile, già dal solo test, farci un’idea del soggetto al di fuori della diagnosi clinica.

L’inserire nella descrizione del caso i riferimenti ai risultati del test avrebbe forse appesantito la descrizione stessa; i punti di contatto sembrano così chiaramente evidenziabili che il lettore potrà trovarli da sé, senza essere condotto da continui riferimenti ai due aspetti modali: la maniera di essere al mondo (situazione «liberamente» accettata) e la maniera di essere dinanzi al test (situazione imposta). D’altra parie queste due maniere vengono ad identificarsi poiché nessuna azione umana è completamente libera dato che è sempre vincolata ad una causa precedente e ad una conseguenza successiva. Soltanto quando l’individuo ha il netto «avvertimento» della coazione di tutte le sue azioni, o accetta i limiti della sua natura e di conseguenza si risolve nei rapporti umani, o, sopraffatto da questa consapevolezza non sa reagire ed affrontare una situazione così gravosa, si isola quindi e cade nella solitudine malata. Questo è il caso di R. che si trova proiettata nella sua esistenza senza un significato preordinato.

Il fatto dunque che un esame psicologico quale il Rorschach (come d’altra parte fra tutti gli altri test proiettivi il TAT che presenta delle vere e proprie situazioni umane e drammatiche) possa darci una proiezione così aderente alla vita dell’esaminato, ci è di grande aiuto soprattutto per l’immediatezza di tale prova, in quanto la presentazione di una tavola del test ci dà nello stesso istante una dimostrazione tangibile di come l’incomprensibile schizofrenico reagisca alla situazione che il mondo gli presenta; inoltre una risposta che può apparire assurda e incomprensibile non può mai essere considerata a priori come tale, non deve essere considerata come risultato di una atimia, né come un riempitivo del vuoto del mondo dello schizofrenico, ma piuttosto come una proiezione della realtà o se vogliamo della irrealtà del suo mondo e del modo in cui in esso il soggetto vive. Come d’altra parte, in campo puramente clinico, il manierismo ed il marionettismo schizofrenici non devono essere considerati – come dice Barison in un suo recente lavoro – quali azioni aventi un «carattere meccanico e devitalizzato» ma piuttosto aventi «un valore di intenzionalità, di complicazione e di ricerca».

Ecco dunque un’ipotesi di lavoro per avvicinarci alle risposte originali nel Rorschach; risposte che per il loro carattere apparentemente intuitivo vengono rapportate a delle vere e proprie intuizioni artistiche. Ad una esatta considerazione però troviamo che i due aspetti artistico e malato sono fondamentalmente diversi in quanto l’uno può essere considerato come un’intuizione, e anzi un superamento di essa quando sia stata rielaborata e proiettata come un prodotto di coscienza, mentre nel malato si può parlare soltanto di una intuizione pura, immanente nel suo mondo. Come dice Henry Ey in La psychiatrie devant le surréalisme, la differenza fra la produzione dell’artista e quella del malato è che l’una è un’opera e l’altra un oggetto d’arte, in quanto soltanto la prima è risultante da « l’intention de créer una forme esthé-tique artificielle», mentre alla seconda manca «pour étre “ouvré” d’ètre mis en forme artificielle».

In questa nostra ricerca sull’incomprensibile del mondo malato ci può essere molto utile l’indirizzo della corrente surrealista e di quella astrattista: infatti la reazione di un profano davanti ad un’opera prodotta da detti artisti può essere rapportabile all’incapacità da parte del medico di comprendere esistenzialmente il mondo dello schizofrenico. Incapacità che si dovrebbe riscontrare d’altra parte anche di fronte agli aspetti fenomenologici del mondo nevrotico poiché, dal punto di vista fenomenologico, non ci porta un grande aiuto la loro classificazione nei corrispondenti gruppi nosografia se vogliamo comprendere qualche cosa della loro maniera di «essere nella malattia». In ambedue le forme è necessario raffrontarci a quella che Minkowski chiama «la turba generatrice», l’asse dietro il quale noi possiamo scorgere l’azione del nostro malato.

In tal modo noi vogliamo dire che, dal punto di vista della comprensibilità, l’agire dei due soggetti (il nevrotico e lo schizofrenico) ci appare esistenzialmente uguale: non è certo con una interpretazione di causalità logica, con la quale spesso si confonde il concetto di comprensibilità, che noi po tremo spiegare la presunta comprensibilità del nevrosico co me la incomprensibilità deliberatamente sostenuta dello schizofrenico.

Conclusione.

Se vogliamo classificare il nostro caso da un punto di vista sintomatico-caratterologico dovremo dire che esso è classificabile nel gruppo della schizoidia, o meglio, che esso possiede quei requisiti che Kretschmer dà agli « sviluppi sensitivi ».

Lo schizoide, secondo Kammerer, è un soggetto la cui costituzione mentale giace su un terreno predisposto che non è obbligatoriamente quello della schizofrenia, della quale ultima la schizoidia è un abbozzo elementare. Esso possiede una carenza di contatto con il mondo esteriore e un ripiegamento su se stesso (autismo). La sua vita interiore è difficilmente esplorabile e può essere scorta soltanto a tratti, talvolta discordanti. Su tale terreno vi è un’affettività che ha dei caratteri diversi e contraddittori (ambivalenza); si evidenziano su due poli opposti iperestesia e anestesia affettiva. L’autismo costituisce sovente un meccanismo di protezione dell’iperestesia.

Kretschmer pone lo schizoide fra gli individui che sono fondamentalmente direzionati da un atteggiamento di vita astenico e appartengono ai tipi a sviluppo sensitivo, nei quali, accanto all’atteggiamento astenico sopraddetto, si evidenzia una forte componente stenica. La nota costituzionale è quindi quella dell’iperestesia schizotimica. Dice Kretschmer che i tipi a sviluppo sensitivo «come tutti gli iperestesici schizotimici hanno disturbi alla conduzione», dato che la loro ultra sensibile impressionabilità per stimoli dati dalle esperienze è sproporzionata dalla deficiente e disuguale la facoltà di esprimersi. Avviene pertanto che si producano facilmente stasi affettive che per lo più prendono la forma della repressione, ossia della consapevole formazione di complessi. Sempre secondo Kretschmer la forma di espressione di questi complessi è determinata dalla presenza in tali soggetti di una antitesi stenico-astenica. Se uno stimolo allenivo particolarmente forte gioca in questi soggetti, la costituzione astenica da un lato e quella stenica dall’altro danno origine alla forma di «nevrosi di rapporto sensitivo» e più oltre al «delirio di rapporto sensitivo». La pressione psichica in tal modo determinata e giunta ad una particolare intensità, dà di regola origine alla proiezione affettiva.

Lo sviluppo del processo della nostra ammalata avrebbe molti aspetti rapportabili alla forma descritta da Kretschmer. Le sue crisi autistiche e le sue reazioni di aggressività potrebbero essere spiegate con un meccanismo catatimico, specie per quanto riguarda la crisi che precede l’ultimo ricovero. Per Kretschmer, come per Bleuler e per tutti i costituzionalisti affettivistici, il significato dell’atto psichico e della sua azione, dovrebbe essere dunque ricercato negli affetti, derivanti dagli istinti fondamentali i quali sarebbero i regolatori dell’azione e del pensiero umani. Quando la coscienza è invece intesa come attività, lo studio degli atti psichici viene spostato dal mondo degli istinti alla maniera nella quale questi sono vissuti dall’individuo, ed essi non devono essere considerati come emanazione di un inconscio incontrollato ma del modo in cui essi si presentano alla coscienza. Quest’ultimo è il pensiero di Berze che, d’altra parte, coincide con quello di Jaspers il quale afferma che la personalità, come insieme di processi psichici, è costituita da un’attività riflessiva e comprensibile che dà all’individuo la coscienza di se stesso.

Anche Minkowski, che inizialmente si rifaceva ai concetti della scuola di Bleuler, afferma essere unilaterale il pensare che il fattore essenziale della psicosi sia costituito da elementi affettivi, in quanto il problema verrebbe ristretto, poiché al di fuori dei meccanismi affettivi intervengono nelle malattie mentali, e specialmente nella schizofrenia, altre manifestazioni «reattive» o di un ordine più meccanico o, «come preferiamo dire quando ci occupiamo di fenomeni psichici, di ordine fenomenologico» (Minkowski).

«Lo sbaglio – prosegue Minkowski – è una errata impostazione di rapporti fra medico e malato, in quanto quando noi esaminiamo uno schizofrenico siamo portati ad esaminare come elementi più importanti quelli della vita affettiva, rapportando la sua vita alla nostra e, fraintendendo i fatti cerchiamo di normalizzare le manifestazioni di una persona malata». Sempre per Minkowski lo schizofrenico avrebbe delle alterazioni di natura nettamente affettiva riferite a elementi ideo-affettivi e, d’altra parte, intrinseci disturbi del pensiero riferiti a alterazioni tempore-spaziali del suo porsi nel mondo.

Ritornando alla nostra malata quindi la ricerca per una diagnosi deve essere fatta da un punto di vista fenomenologico, o meglio da un punto di vista esistenziale, la discussione se si debba prendere in considerazione una sensibilità genetica, escludendo in tal modo l’instaurarsi di un processo schizofrenico, non ci sembra essenziale in quanto l’una può coesistere nell’altro.

L’antitesi psico-fisica non deve essere presa rigidamente in quanto «con tali formulazioni dogmatiche» precludiamo soltanto la via alla cognizione psichiatrica. «Si è pure fatto notare – dice Binswanger – che per la Daseinsanalyse il criterio della sensibilità non dà assolutamente la soluzione, cioè che essa non deve essere usata come giudizio poiché non agisce con categorie psicologiche, ma piuttosto con l’interpretazione fenomenologica, con la comprensione fenomenologica.

Il metodo che abbiamo seguito nell’interpretazione del caso descritto può essere ritenuto mancante di rigore scientifico: potremmo cioè essere accusati di aver analizzato l’evolversi di un processo schizofrenico seguendo la psicologia normale. Questo rimprovero non sembra però sostenibile, primo perché non abbiamo seguito lo svilupparsi di questa forma patologica secondo la «sensibilità» della paziente, secondo perché i sintomi in quanto tali sono stati oggetto di una disamina al loro comparire non come necessaria conseguenza dell’uno sull’altro, ma come manifestazioni di un individuo al di fuori delle leggi comuni della psicologia normale, al di fuori del mondo del contatto, al di fuori del proprio mondo, o meglio, come dice Binswanger, al di fuori del modo dell’amore e dell’amicizia. Abbiamo dovuto dunque penetrare la sua psicologia e le leggi particolari che la governano.

Mentre per la psicopatologia l’interesse per il malato termina con l’apparire dei sintomi in quanto è già possibile formulare una diagnosi, per la Daseinsanalyse proprio allora comincia la sua funzione: nello sceverare detti sintomi, nel vedere cioè l’individuo fuori del mondo, sopra il mondo («in Der Welt über die Welt hinaus sein»).

1 Intendendo con tale termine l’inseparabile unità di avvenimento e mondo, o per meglio dire da un lato la soggettività espressa dal soggetto interpretante, dall’altro l’avvenimento esterno rappresentato dalla tavola interpretata; in tal modo non vi è divario fra soggettività e oggettività.

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