Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – Presentazione a Che cos’è la psichiatria?
In Che cos’è la psichiatria?, Amministrazione Provinciale di Parma, 1967. 2a ed. Einaudi, Torino 1973.
Nel 1948 J.-P. Sartre, nel saggio Che cos’è la letteratura? (Situations II, Gallimard, Paris), scrive fra l’altro che «le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte». Questa precisazione sul fissarsi in schemi prestabiliti di ciò che, nato come rifiuto di una realtà data, nella realtà deve trovare il senso del suo continuo rinnovarsi per non tramutarsi in oppressione di sé, è la premessa su cui si basano le discussioni e i saggi qui presentati che formulano tutti un’unica domanda: che cos’è la psichiatria?
Questa domanda – di per sé provocatoria – vuole essere solo un invito ad una discussione. Essa nasce dallo stato di disagio reale in cui ci si trova, oppressi da una ideologia psichiatrica chiusa e definita nel suo ruolo di scienza dogmatica che, nei confronti dell’oggetto della sua ricerca, ha saputo solo definirne la diversità e incomprensibilità traducendole concretamente in una stigmatizzazione sociale.
Le diagnosi psichiatriche hanno assunto un valore ormai categoriale, nel senso che corrispondono ad un etichettamen-to, oltre il quale non c’è più possibilità d’azione o di sbocco. Nel momento in cui lo psichiatra si trova faccia a faccia con il suo interlocutore (il «malato mentale») sa di poter contare su un bagaglio di conoscenze tecniche con le quali – partendo dai sintomi – sarà in grado di ricostruire il fantasma di una malattia; avendo, tuttavia, la netta percezione che – non appena ne avrà formulata la diagnosi – l’uomo sfuggirà ai suoi occhi, perché definitivamente codificato in un ruolo che ne sancisce soprattutto un nuovo status sociale. Si entra cioè in una sorta di passività che lo «scienziato» viene ad assumere di fronte al fenomeno e che lo porta a risolverlo attraverso una routine tecnica – da lui nettamente separata -la cui finalità pare quella dello smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è. La sua partecipazione in questa operazione è nulla, perché i parametri su cui la psichiatria ha costruito il suo sistema, lo mettono al riparo dalla problematicità della situazione, cosi che in questo rapporto a due non esiste né l’intervistatore (che non è «situato»), né l’intervistato (che viene cancellato nel momento in cui lo si codifica).
La necessità della partecipazione diretta alla situazione da parte del ricercatore, è analizzata da Sartre nella Critique de la raison dialectique (Gallimard, Paris 1960) quando afferma che «la posizione dello sperimentatore de-situato tende a mantenere la Ragione analitica come tipo di intelligibilità; la sua passività di scienziato rispetto al sistema gli rivelerebbe una passività del sistema rispetto a se stesso. La dialettica si svela solo a un osservatore situato all’interno, cioè ad un ricercatore che viva la propria indagine sia come un contributo possibile all’ideologia dell’epoca nella sua interezza, sia come praxis particolare di un individuo, definito dalla sua avventura storica e personale in seno ad una storia più vasta che la condizioni».
Questa distanza del ricercatore dal terreno della propria ricerca è particolarmente significativa nel caso della psichiatria, se si confronta la frattura in atto fra il rigoroso livello tecnico delle dissertazioni scientifiche (con l’enorme castello di classificazioni, sottoclassificazioni, precisazioni e bizantinismi nosografici) e la realtà cui tali dissertazioni si riferiscono: il malato mentale, cosi come si presenta – dopo anni di ospedalizzazione – nei nostri asili psichiatrici. Da un lato, dunque, una scienza impegnata alla ricerca della genesi di una malattia che riconosce «incomprensibile»; dall’altro un malato che, per la sua presunta «incomprensibilità», è stato oppresso, mortificato, distrutto da un’organizzazione asilare che, invece di agire su di lui con il ruolo protettivo di una struttura terapeutica, ha contribuito alla graduale – spesso irreversibile – disintegrazione della sua identità.
Di fronte ad una tale verifica della realtà non si può dunque esimerci dal domandare che cosa sia la psichiatria e quale sia il suo campo d’indagine. Se cioè si occupi del malato mentale o, limitando il suo contributo ad una elaborazione puramente ideologica, si interessi solo delle sindromi in cui lo rinchiude; e, qualora riconosca nel malato mentale l’oggetto della sua indagine, quale sia la sua giustificazione nel momento in cui se ne esaminino i risultati: l’istituzionalizzato dei nostri ricoveri. Ci si domanda insomma se i fatti insignificanti che spesso fanno crollare interi sistemi teorici (nel nostro caso i malati che vegetano negli asili) non siano da troppo tempo entrati in conflitto con la teoria cui la psichiatria si appella, e se non sia il caso che la teoria ceda il passo, per lasciar parlare i fatti. È questo che si domanda un gruppo di malati mentali, medici, infermieri, psicologi ed amministratori, impegnati tutti nel campo dell’istituzione psichiatrica. Domanda che nasce dal disagio reale, vissuto a tutti i livelli, nel momento in cui si mette in discussione la validità, e l’arbitrarietà insieme, del rapporto autoritario-gerarchico su cui l’intera vita asilare tradizionalmente si fonda.
Nel momento in cui si esamini il significato globale di un tale tipo di organizzazione e le finalità dei diversi ruoli che in essa si trovano ad agire, non si può non concludere – alla luce delle attuali possibilità terapeutiche nei confronti del malato – di trovarci di fronte ad un insieme di fenomeni che ha in sé qualcosa di paradossale. Il complesso ospedaliero sembra avere in se stesso le proprie finalità, nel senso che il lavorio che lo sottende pare servire soltanto a mantenerlo in vita, senza peraltro tendere verso qualcosa che ne giustifichi la funzione. Se poi ci si avvicini, tanto da individuare i vari livelli che interagiscono all’interno del sistema, la prima impressione globale sarà confermata dall’assenza di evidenti ruoli reali. Quello che si rileva subito è che il malato non esiste (anche se sarebbe lui il soggetto della finalità dell’intera istituzione), fissato com’è in un ruolo passivo che lo definisce e insieme lo cancella. Ma ciò che, inoltre, non si riesce ad individuare è il ruolo dello psichiatra e dell’infermiere. Se si trascura quello dell’autorità e del potere di cui sono generalmente investiti – che fa parte di una catena di imposizioni perpetuantesi da un livello all’altro, fino a chiudersi con l’aggressività malata che richiede di essere contenuta – non si riesce a giustificare la loro presenza. Si arriva cosi a comprendere come – al di là del livello della custodia -la loro azione necessiti di essere continuamente trascesa nell’autorità che li distanzi e che, insieme, mascheri ai loro stessi occhi il niente che non possono riconoscere di essere.
Se infatti la finalità dell’istituto non è esplicitamente la figura del «malato», l’intera organizzazione viene svuotata di ogni significato: che può, però, immediatamente riassumere nel momento in cui venga riconosciuto al malato un ruolo. In questa prospettiva, il primo passo indispensabile è il raccorciamento della distanza che lo separa dagli altri ruoli, raccorciamento che agisca su di lui come il simbolo del riconoscimento del proprio valore. Su questa base può essere instaurato con il malato un rapporto reale che parta da una reciprocità finora negatagli.
Sarà questa reciprocità a mettere in discussione il ruolo autoritario dell’infermiere e del medico che, contestati da un malato che li fa uscire dai loro ruoli privilegiati, devono andare alla ricerca di una funzione reale che sostituisca quella – fittizia e spesso di malafede – che l’autorità e il prestigio della loro posizione gerarchica avevano loro conferito. Se la reciprocità dei ruoli tende a negare ogni gerarchia, allora avviare un tale tipo di rapporto con il malato, significa minare il principio autoritario-gerarchico su cui l’intera organizzazione ospedaliera si fonda, per tendere ad un organismo in cui ogni polo della realtà cerchi, attraverso l’altro, il proprio significato. In questo senso, se la liberazione del malato si attua attraverso l’azione dello psichiatra e dello staff ospedaliero, lo psichiatra e lo staff trovano la loro liberazione attraverso il malato che – solo – può dare loro il ruolo che non hanno ancora avuto.
La nostra realtà è dunque l’internato degli ospedali psichiatrici, per il quale la psichiatria non ha trovato finora che soluzioni negative, vivendone l’incomprensibile psicopatologico come una mostruosità socio-biologica da allontanare e da escludere. Ma se lo studioso di psicopatologia può trovare legittimo continuare a cercare la soluzione teorica per una tale mostruosità, mantenendosi staccato dalla realtà che non gli sta sotto gli occhi, lo psichiatra che faccia parte di un’organizzazione ospedaliera, si trova inevitabilmente costretto ad una scelta immediata. O accetta i parametri della psichiatria tradizionale e, quindi, fa ad essi aderire il malato ed i sintomi con i quali è stato etichettato, sanando il conflitto fra teoria e pratica a solo favore della teoria (e allora instaura con lui l’ovvio rapporto gerarchico-autoritario che il suo ruolo gli richiede). O si avvicina al malato cosi com’è, cercando di comprendere che cosa è diventato a causa di quei parametri che ne hanno sancito — come con un marchio — la diversità, dando la precedenza questa volta alla realtà, come unica fonte di verifica. L’alternativa oscilla dunque fra un’interpretazione ideologica della malattia che consiste nella formulazione di una diagnosi esatta, ottenuta attraverso l’incasellamento dei diversi sintomi in uno schema sindromico precostituito; o l’approccio al «malato mentale» su di una dimensione reale in cui la classificazione della malattia ha e non ha peso, dato che il livello di regressione che lo accomuna agli altri ricoverati, è legato ad una serie di comuni circostanze istituzionali – quelle che Goffman chiama «contingenze di carriera» – più che alla sindrome in sé: non si tratta dunque solo di regressione malata, ma anche di regressione istituzionale.
L. Binswanger (La conception de l’homme chez Freud à la lumière de l’anthropologie philosophique, in «Evol. Psych.», I, 3, 1938) aveva già puntualizzato il pericolo cui va incontro un metodo di approccio scientifico che «allontanandosi da noi stessi, porta ad una concezione teorica, alla osservazione, all’esame, allo smembramento dell’uomo reale allo scopo di costruirne scientificamente un’immagine». Pure, è solo corredato di una serie di immagini e di categorie precostituite di tal natura, che lo psichiatra si trova ad affrontare il malato mentale; costretto a mettere fra parentesi la malattia, la diagnosi, la sindrome in cui è stato etichettato, se vuole riuscire a comprenderlo e soprattutto ad agire su di lui, dato che risulta distrutto, più che dalla malattia, da ciò che la malattia è stata ritenuta e dalle misure di sicurezza che una tale interpretazione ha imposto.
Tuttavia, nel momento in cui si mette in discussione la psichiatria tradizionale che – nell’aver assunto a valore metafisico i parametri su cui fonda il suo sistema – si è rivelata inadeguata al suo compito, si corre il rischio di cadere in un analogo impasse, qualora ci si immerga nella pratica, senza mantenere anche in questo terreno un livello critico.
Ciò significa che, volendo partire dal «malato mentale», dal ricoverato dei nostri istituti come unica realtà, c’è il pericolo di avvicinare il problema in modo puramente emotivo. Capovolgendo, in un’immagine positiva, il negativo del vecchio manicomio, si rischia di saturare il nostro senso di colpa nei confronti dei malati in un impulso umanitario, capace soltanto di confondere nuovamente i termini del problema. Liberato dalla sua promiscuità con il delinquente; rinchiuso in un carcere non meno duro del precedente; etichettato in un ruolo non molto diverso da quello del colpevole punito; allontanato e isolato in quanto riconosciuto dalla scienza psicologicamente e biologicamente incomprensibile; il malato rischia di diventare ora il «povero malato» che ha pagato per tutti, per il quale necessita progettare nuove strutture a carattere prevalentemente riparatorio. Il cattivo malato, la cui tutela doveva essere affidata ad un sistema carcerario, rischia di diventare il «buon» malato che si tenta di reintegrare – attraverso nuove strutture terapeutiche — alla società, conservando però intatto il sistema di privilegi, prevaricazioni, paure e pregiudizi che la caratterizzano. Ciò, mediante un complesso di istituzioni che continui a preservarla e a garantirla dalla diversità che la malattia mentale tuttora rappresenta. Del resto, in un mondo manicheo, la figura del «malato mentale» non può essere vissuta come un problema che lo metta in crisi: tuttalpiù potrà mutare il ruolo all’interno del sistema stesso, la cui tranquillità deve essere, prima di tutto, salvaguardata.
La risposta che, in una recentissima intervista (J.-P. Sartre répond, in «L’Arc», n. 30, 1966) J.-P. Sartre dà, riprendendo il tema da lui affrontato nel saggio del ’47 prima citato, sembra calzare perfettamente al discorso finora impostato, tanto da ritenersi qui opportuno trascriverne uno stralcio. All’intervistatore che gli contesta una sua affermazione secondo cui «nessun libro resiste davanti ad un bambino che muore di fame», J.-P. Sartre risponde che «fra la fame del bambino ed il libro la distanza è incommensurabile. Ma se è l’emozione che io provo davanti alla fame che mi spinge a scrivere – continua Sartre – non è possibile riempire il vuoto. Per lottare contro la fame bisogna cambiare il sistema politico ed economico e la letteratura non può giocare in questa lotta che un ruolo secondario. Un ruolo secondario che però non è nullo. C’è un’ambiguità nelle parole: – da un lato non sono che parole – “letteratura”; dall’altro designano qualcosa e a loro volta agiscono su ciò che designano: modificano. La letteratura deve giocare su questa ambiguità. Se si pone l’accento più sull’uno che sull’altro aspetto o si fa della letteratura di propaganda o la si riduce a quel nulla che non vuole essere… Ma se si mantiene fermamente l’ambiguità, se non si sacrifica né l’uno né l’altro aspetto delle parole, si sarà già a buon punto per fare la vera letteratura: una contestazione che contesta se stessa».
Il discorso di Sartre è ancora una volta direttamente trasferibile al nostro. Il «malato mentale» che incontriamo negli asili psichiatrici è, infatti, la realtà che contesta la psichiatria cosi come il bambino che muore di fame contesta la «letteratura». Ma se è solo l’emozione che io provo davanti al malato che mi spinge ad agire nei suoi confronti, non è possibile riempire il vuoto che lo separa dalla scienza che dovrebbe occuparsi di lui. Quindi, o la parola conserva la sua ambiguità di essere «parola» che contemporaneamente modifica ciò che designa (e allora la psichiatria deve essere una scienza che agisce direttamente sul malato come ciò che il discorso psichiatrico deve designare per modificare); o si prende un solo polo di tale ambiguità e si fa, da un lato, della «letteratura» (discutendo sulle classificazioni e sottoclassificazioni delle sindromi); e dall’altro una analisi emotiva del «malato» e della deprecabile situazione in cui si trova. Rifiutando invece e la sterile «letteratura» psichiatrica e lo sterile rapporto puramente umanitario, si sente l’esigenza di una psichiatria che voglia costantemente trovare la sua verifica nella realtà e che nella realtà trovi gli elementi di contestazione per contestare se stessa.
La psichiatria asilare riconosca dunque di aver fallito il suo incontro con il reale, sfuggendo alla verifica che – attraverso quella realtà – avrebbe potuto attuare. Una volta sfuggitale la realtà, non ha che continuato a fare della «letteratura», elaborando le sue teorie, mentre il «malato» si trovava a pagare le conseguenze di questa frattura – rinchiuso nell’unica dimensione ritenuta adatta a lui: la segregazione.
Ma, come per Sartre il ruolo della letteratura nella lotta contro la fame è secondario, perché «per lottare contro la fame bisogna cambiare il sistema politico ed economico», cosi nel nostro campo, per lottare contro i risultati di una scienza ideologica, bisogna anche lottare per cambiare il sistema che la sostiene. Se, infatti, la psichiatria – attraverso la conferma scientifica dell’incomprensibilità dei sintomi – ha giocato la sua parte nel processo di esclusione del «malato mentale», essa è da considerarsi, insieme, l’espressione di un sistema che ha finora creduto di negare ed annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica nel tentativo di riconoscersi una società senza contraddizioni; cosi come proverà ora ad ammorbidirne le asperità, cercando di riassorbirle nel suo stesso seno attraverso una psichiatria di propaganda (che è appunto la letteratura di propaganda di cui parlava Sartre nella sua intervista) che viene proposta come nuova alternativa.
Per questo, il gruppo di malati, medici, psicologi, infermieri e amministratori, qui presenti con le loro discussioni e saggi sulla realtà asilare, hanno intrapreso – partendo da una verifica della realtà – una lotta che deve muoversi ad un livello scientifico e politico insieme. Se, infatti, il malato è l’unica realtà cui ci si debba riferire, si devono affrontare le due facce di cui tale realtà è appunto costituita: quella del suo essere un malato, con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere un escluso, uno stigmatizzato sociale. Una comunità che vuol essere terapeutica deve tener conto di questa duplice realtà – la malattia e la stigmatizzazione – per poter ricostruire gradualmente il volto del malato cosi come doveva essere prima che la società, con i suoi atti di esclusione, e l’istituto da lei inventato, agissero su di lui con la loro forza negativa.
Tuttavia, soltanto tenendo presente l’estrema ambiguità della situazione che stiamo vivendo, si riuscirà ad evitare l’edificazione di una nuova ideologia: quella dell’ospedale aperto, delle comunità terapeutiche, proposte come soluzione al problema del malato mentale. La nostra realtà è affondata in un terreno profondamente contraddittorio e la conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell’intera comunità. Si tende, infatti, verso una nuova psichiatria basata sull’approccio psicoterapico con il malato, e si è invece ancora invischiati in una realtà psichiatrica legata ai vecchi schemi positivisti; ci si orienta verso la costituzione di nuclei ospedalieri che tengano conto del gioco delle dinamiche interne ai gruppi e dell’apporto delle relazioni interpersonali, non avendo altri modelli cui riferirsi che quelli di un sistema autoritario e gerarchico; ci si sforza di trasformare l’ospedale psichiatrico in un centro retto – per quanto possibile – comunitariamente e si è invece nostro malgrado inseriti in una realtà sociale ad alto livello repressivo e competitivo; si tende ad affrontare comunitariamente il malato mentale per farlo uscire dallo stato di regressione in cui è stato indotto, e si rischia di provocare in lui un nuovo tipo di disadattamento al clima istituzionalizzato della società.
Se quello della comunità terapeutica può essere, dunque, considerato un passo necessario nell’evoluzione dell’ospedale psichiatrico (necessario soprattutto nella funzione che ha avuto e che tuttora ha di smascheramento di ciò che il malato mentale era ritenuto e non è e per l’individuazione dei ruoli prima inesistenti al di fuori della dimensione concentrazio-naria) non può però considerarsi la meta finale verso cui tendere, quanto piuttosto una fase transitoria in attesa che la situazione stessa si evolva in modo da fornirci nuovi elementi di chiarificazione. Ciò che risulta importante, per il momento, è riuscire a mantenere, affrontare ed accettare le nostre contraddizioni, senza essere tentati di allontanarle per negarle. Per questo il compito della psichiatria attuale potrebbe essere quello di rifiutarsi di ricercare una soluzione della malattia mentale come malattia, ma di avvicinare questo tipo particolare di malato come un problema che – solo in quanto presente nella nostra realtà – potrà rappresentarne uno degli aspetti contraddittori per la cui soluzione si dovranno impostare ed inventare nuovi tipi di ricerca e nuove strutture terapeutiche.
Ciò si è evidenziato chiaramente nelle organizzazioni ospedaliere aperte: il degente – non più isolato e allontanato dalla vista del medico – si impone come problema sempre presente, quindi come uno dei poli della realtà che non si può negare. Ma è possibile che soltanto lo psichiatra lo viva come problema, mentre la società continua a volerlo rinchiudere nel ruolo di malato, per non doversi impegnare ad affrontarlo nella sua presenza quotidiana? Lo psichiatra non può affrontare una tale esperienza se la società non si allinea nella stessa direzione e l’unica possibilità — che non è e non vuole essere una soluzione — è quella di accettare come parte della nostra realtà la problematica del malato mentale. Solo nel momento in cui il problema sia vissuto da tutti noi, la società dovrà imporsi soluzioni reali attraverso l’organizzazione ‘li strutture terapeutiche, come l’unico modo di far fronte alla sua incresciosa presenza nella nostra realtà. Fintantoché – altrove – altri si cureranno di lui, continueremo a negare- il problema continuando a delegarlo ad altri.
Ciò che si va evidenziando nelle nuove strutture psichiatriche, tuttora ristrette entro i limiti del capovolgimento del sistema tradizionale, è che l’ospedale psichiatrico non è un’istituzione che guarisce, ma una comunità che si guarisce affrontando le proprie contraddizioni, dato che si tratta di comunità reali, ricche di tutte le contraddizioni che caratterizzano appunto la realtà. Per questo, dal momento in cui il mondo istituzionale non sarà più rinchiuso entro i confini di una realtà artificiosa, verrà a trovarsi faccia a faccia con il mondo esterno che, a. sua volta, dovrà imparare ad accettare le proprie contraddizioni non avendo più un luogo in cui relegarle. In questo senso si può parlare di un incontro delle due comunità (quella esterna e quella interna), già fisicamente concretatosi nell’espandersi della città fino alla periferia dove, un tempo, era confinata la casa della follia, e nell’evolversi della comunità chiusa che — nel suo manifestarsi una comunità viva, reale e contraddittoria – si troverà a scontrarsi dialetticamente con la realtà da cui è stata partorita. Si potrà cosi minare contemporaneamente e l’ideologia dell’ospedale come macchina che cura, come fantasma terapeutico, come luogo senza contraddizioni; e l’ideologia di una società che, negando le proprie contraddizioni, vuole riconoscersi come una società sana.