La sintesi dell’eroina
Articolo di Stefano Canali su Psicoattivo
Nel 1898, la Bayer annunciava al mondo di essere finalmente pronta a commercializzare un farmaco miracoloso: l’eroina. Il lancio del nuovo prodotto veniva preparato con una massiccia e capillare campagna pubblicitaria. Foglietti illustrativi, depliant e campioni gratuiti della sostanza vennero inviati praticamente a tutti i medici e a tutte le farmacie dei paesi industrializzati. «Contro tutti i dolori, sedativa della tosse, per la cura dei tossicomani», così recitava il foglietto inviato con il campione. Era la diacetilmorfina, il cui nome commerciale, Eroina, derivava dalla parola tedesca heroisch, energico, eroico, che più caratterizzava, secondo la Bayer, questo farmaco potente e apparentemente privo di controindicazioni.
Il caso eroina: le responsabilità della Bayer e della comunità scientifica
L’eroina era stata sintetizzata nei laboratori Bayer nel 1874 e sembra poco verosimile che circa venticinque anni di studio sulla molecola non fossero stati sufficienti a determinare le sue elevate proprietà assuefacenti. Il fatto stesso che l’eroina fosse un derivato semi-sintetico di un farmaco ormai tristemente famoso per aver causato la dipendenza a decine di migliaia di persone nel mondo avrebbe dovuto rendere estremamente attenti i ricercatori della Bayer sulle proprietà farmacologiche della nuova sostanza e su i suoi effetti nell’organismo. Per queste ragioni, alcuni storici e farmacologi accusano ancora oggi il colosso chimico tedesco di aver speculato sulle speranze dei morfinomani, sapendo di introdurre sul mercato farmaceutico una merce che avrebbe istantaneamente trovato una clientela disperata e vastissima.
Tuttavia, anche da parte della comunità scientifica non furono molte le voci critiche che si levarono nel periodo in cui l’eroina cominciò ad essere commercializzata ed usata su campioni vasti. Ancora agli inizi del Novecento, le più accreditate riviste scientifiche concordavano nell’affermare che l’eroina non induceva dipendenza, come invece faceva la morfina, né dava alcuno dei sintomi tipici del morfinismo. Questa cecità nel accertare e nel valutare i pericoli della somministrazione di eroina testimonia, ancora oggi, come il labile confine tra idea di uso e di abuso di droga sia un elemento socialmente determinato, e contemporaneamente dimostra che addirittura gli effetti delle sostanze psicoattive sull’individuo che le assume sono in larga parte controllati da valori e aspettative di tipo culturale. Poiché l’eroina veniva pubblicizzata e somministrata soprattutto come farmaco per la cura delle malattie dell’apparato respiratorio e per la disintossicazione dei morfinomani, chi la assumeva non ne cercava e non si attendeva gli effetti psicotropi. L’eroina, inoltre, veniva in larga parte consumata come ingrediente di sciroppi e in quanto tale assunta per bocca. Ciò rallentava notevolmente la sua penetrazione nel cervello, impedendo a chi la ingeriva di sperimentare l’improvvisa ed intensa sensazione di benessere e di euforia, il rush, che si dà invece con l’iniezione endovena.
Dopo questi primi abbagli, tuttavia, si arrivava finalmente a comprendere che con l’eroina la ricerca farmaceutica aveva creato uno stupefacente ben più pericoloso della morfina. Rispetto a quest’ultima, infatti, l’eroina è capace di attraversare con maggiore facilità la barriera ematoencefalica che protegge il cervello dall’immissione di sostanze tossiche nei suoi tessuti e risulta nettamente più potente della morfina nell’indurre analgesia, euforia e piacere intenso, può essere quindi, con lo stesso profitto, commercializzata ed usata in quantità assai minori del derivato dell’oppio dedicato a Morfeo. Per questa ragione, quando i primi trattati internazionali sul controllo del traffico di narcotici, stipulati tra il 1912 e il 1914, sancirono l’illegalità dei derivati dell’oppio, i contrabbandieri e gli spacciatori, ma anche i consumatori, preferirono passare alla più tossica eroina.