Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – Le istituzioni della violenza

Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – Le istituzioni della violenza

In L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968

Negli ospedali psichiatrici è d’uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire, nemmeno per andare al gabinetto. In caso di necessità l’infermiere sorvegliante interno suona il campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni. La cerimonia è cosi lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto. Questa risposta del paziente ad una regola disumana, viene interpretata come un «dispetto» nei confronti del personale curante, o come espressione del livello di incontinenza del malato, strettamente dipendente dalla malattia.

In un ospedale psichiatrico due persone giacciono immobili nello stesso letto. In mancanza di spazio, si approfitta del fatto che i catatonici non si danno reciprocamente fastidio, per sistemarne due per letto.

In una scuola media, il professore di disegno straccia il foglio dove un bambino ha disegnato un cigno con le zampe, dicendo che a lui «i cigni piacciono sull’acqua».

In un asilo i bambini sono costretti a sedere nei banchi senza parlare mentre la maestra si dedica a piccoli lavoretti a maglia personali; minacciati di restare ore con le braccia alzate – il che è molto doloroso – qualora si muovano o chiacchierino fra loro, o facciano comunque qualcosa che disturba la maestra e il suo lavoro.

Un malato ricoverato in qualsiasi reparto di ospedale civile — se non è dozzinante di prima – è certo di essere in balia degli umori del medico, che può sfogare su di lui aggressività a lui completamente estranee.

In un ospedale psichiatrico ad un malato «agitato» viene fatta la «strozzina». Chi non conosce l’ambiente manicomiale ignora di che cosa si tratti: è un sistema molto rudimentale – in uso un po’ dovunque – di far perdere coscienza al malato, soffocandolo. Gli viene buttato sulla testa un lenzuolo, spesso bagnato – cosi da non permettergli di respirare -che si avvita strettamente all’altezza del collo: la perdita di coscienza è immediata.

La frustrazione delle madri e dei padri, si risolve generalmente in violenze costanti sui figli, che non ne soddisfano le aspirazioni competitive: il figlio è inevitabilmente costretto ad essere meglio di un altro, e a vivere come un fallimento la propria diversità. Un brutto voto a scuola viene punito, come se la punizione corporea o psicologica servisse a risolvere l’insufficienza scolastica.

Nell’ospedale psichiatrico in cui lavoro, anni fa era in uso un sistema elaboratissimo per mezzo del quale l’infermiere di turno notturno si garantiva di essere svegliato ogni mezz’ora da un malato, per poter timbrare la sua scheda di presenza, cosi com’era d’obbligo. La tecnica consisteva nell’incaricare un malato (che fra l’altro non poteva dormire) di dividere il tabacco di una sigaretta dalle briciole di pane che vi erano state mescolate. L’esperienza aveva dimostrato che per questo lavoro di smistamento, occorreva appunto mezz’ora, dopo di che il malato svegliava l’infermiere e riceveva in premio il tabacco. L’infermiere timbrava la sua scheda (era necessario che testimoniasse ogni mezz’ora di essere sveglio) e riprendeva a dormire, incaricando un altro malato o lo stesso malato di ricominciare – nuova clessidra umana – il suo lavoro alienante.

Da «Il Giorno» di qualche tempo fa: «Basta con la tristezza! Il carcere di San Vittore perderà finalmente il suo aspetto grigio e tetro. Da alcuni giorni infatti, alcuni imbianchini sono al lavoro e un lato di uno dei raggi, che dà sul viale Papiniano, appare già dipinto di un bel giallo shocking, che allarga il cuore. Quando tutto il complesso sarà rinfrescato, San Vittore acquisterà un volto più dignitoso, meno pesante e angoscioso del passato». E all’interno? Ci sono ancora i «buglioli» nelle celle, ma il muro giallo shocking intanto ci «allarga il cuore».

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, toccando tutte le istituzioni su cui si organizza la nostra società. Ciò che accomuna le situazioni limite riportate, è la violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere, del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società.

I gradi in cui questa violenza viene gestita sono, tuttavia, diversi a seconda del bisogno che chi detiene il potere ha di velarla e di mascherarla. Di qui nascono le diverse istituzioni che vanno da quella familiare, scolastica, a quelle carcerarie e manicomiali; la violenza e l’esclusione vengono a giustificarsi sul piano della necessità, come conseguenza le prime della finalità educativa, le altre della «colpa» e della «malattia». Queste istituzioni possono essere definite come le istituzioni della violenza.

Questa la storia recente (in parte attuale) di una società organizzata sulla netta divisione fra chi ha (chi possiede in senso reale, concreto) e chi non ha; da cui deriva la mistificata suddivisione fra il buono e il cattivo, il sano e il malato, il rispettabile e il non rispettabile. Le posizioni sono – in questa dimensione – ancora chiare e precise: l’autorità paterna è oppressiva e arbitraria; la scuola si fonda sul ricatto e sulla minaccia; il datore di lavoro sfrutta il lavoratore; il manicomio distrugge il malato mentale.

Tuttavia, la società cosiddetta del benessere e dell’abbondanza ha ora scoperto di non poter esporre apertamente il suo volto della violenza, per non creare nel suo seno contraddizioni troppo evidenti che tornerebbero a suo danno, ed ha trovato un nuovo sistema: quello di allargare l’appalto del potere ai tecnici che lo gestiranno in suo nome e continueranno a creare – attraverso forme diverse di violenza: la violenza tecnica – nuovi esclusi.

Il compito di queste figure intermedie sarà quindi quello di mistificare – attraverso il tecnicismo – la violenza, senza tuttavia modificarne la natura; facendo sf che l’oggetto di violenza si adatti alla violenza di cui è oggetto, senza mai arrivare a prenderne coscienza e poter diventare, a sua volta, soggetto di violenza reale contro ciò che lo violenta. Il compito dei nuovi appaltatori sarà quello di allargare le frontiere della esclusione, scoprendo, tecnicamente, nuove forme di deviazione, fino ad oggi considerate nella norma.

Il nuovo psichiatra sociale, lo psicoterapeuta, l’assistente sociale, lo psicologo di fabbrica, il sociologo industriale (per non citarne che alcuni) non sono che i nuovi amministratori della violenza del potere, dato che – ammorbidendo gli attriti, sciogliendo le resistenze, risolvendo i conflitti provocati dalle istituzioni – non fanno che consentire, con la loro azione tecnica apparentemente riparatrice e non violenta, il perpetuarsi della violenza globale. Il loro compito — che viene definito terapeutico-orientativo – è quello di adattare gli individui ad accettare la loro condizione di «oggetti di violenza», dando per scontato che l’essere oggetto di violenza sia l’unica realtà loro concessa, al di là delle diverse modalità di adattamento che potranno adottare.

Il risultato è dunque il medesimo. Il perfezionismo tecnico-specialistico riesce a far accettare l’inferiorità sociale dell’escluso, cosi come lo riusciva a fare, in modo meno subdolo e raffinato, la definizione della diversità biologica che, per altra via, sanciva l’inferiorità morale e sociale del diverso: entrambi i sistemi tendono a ridurre il conflitto fra l’escluso e l’escludente, confermando scientificamente l’inferiorità originaria dell’escluso, nei confronti di chi lo esclude. L’atto terapeutico si rivela, in questo senso, una riedizione – riveduta e corretta – della precedente azione discriminante di una scienza che, per difendersi, ha creato la «norma», superata la quale si cade nella sanzione da essa stessa prevista.

L’unico atto possibile da parte dello psichiatra è quindi quello di non tendere a soluzioni fittizie, ma di far prendere coscienza della situazione globale in cui si vive, contemporaneamente esclusi ed escludenti. L’ambiguità delle nostre figure di «terapeuti» sussiste fintantoché noi non ci rendiamo conto del ruolo che ci viene richiesto. Se l’atto terapeutico coincide con l’impedimento a che la presa di coscienza da parte del malato del suo essere escluso si muova dalla sua particolare sfera persecutoria (la famiglia, i vicini, l’ospedale) per entrare in una situazione globale (presa di coscienza di essere escluso da una società che realmente non lo vuole), non ci resta che rifiutare l’atto terapeutico qualora tenda solo a mitigare le reazioni dell’escluso nei confronti del suo escludente. Ma per far questo bisogna che noi stessi – gli appaltatori del potere e della violenza – prendiamo coscienza di essere a nostra volta esclusi, nel momento stesso in cui siamo oggettivati nel nostro ruolo di escludenti.

Quando appaltiamo il potere (i concorsi di cattedra, i primariati, la conquista di una clientela privata a buon livello) soggiaciamo all’esame dell”establishment che vuole gli garantiamo di essere in grado di espletare – tecnicamente – il nostro compito, senza scosse né deviazioni dalla norma: vuole cioè che garantiamo il nostro appoggio e la nostra tecnica a sua difesa e tutela. Nell’accettazione del nostro mandato sociale, noi garantiamo dunque un atto terapeutico che non è che un atto di violenza verso l’escluso, che ci viene affidato perché ne controlliamo tecnicamente le reazioni nei confronti dell’escludente. Agire all’interno di un’istituzione della violenza, più o meno mascherata, significa rifiutarne il mandato sociale, dialettizzando sul campo pratico questa negazione: negare l’atto terapeutico come atto di violenza mistificata, per unire la nostra presa di coscienza di essere semplici appaltatori della violenza (quindi esclusi), alla presa di coscienza che dobbiamo stimolare negli esclusi del loro essere esclusi: ciò senza agire in alcun modo verso il loro adattamento a questa esclusione.

La negazione di un sistema è la risultante di un rovesciamento, di una messa in crisi nei confronti del campo determinato sul quale si agisce. È questo il caso della crisi del sistema psichiatrico, come sistema scientifico e istituzionale insieme, che viene rovesciato e messo in discussione dalla presa di coscienza del significato del campo specifico, particolare in cui si opera. Ciò significa che l’incontro con la realtà istituzionale ha evidenziato elementi – in netta contraddizione con le teorie scientifiche – che rimandano a meccanismi estranei alla malattia e alla sua cura. Il che non può non mettere in crisi le teorie scientifiche sul concetto di malattia e le istituzioni su cui esse fondano le loro azioni terapeutiche, rimandandoci alla comprensione di questi «meccanismi estranei» che hanno le loro radici nel sistema sociale-politico-economico che li determina.

L’assorbimento del malato nel corpus medico è stato, da parte della scienza, lento e laborioso. In medicina l’incontro fra medico e paziente si attua nel corpo stesso del malato, che viene considerato come oggetto d’indagine nella sua nuda materialità e oggettualità. Quando però si trasferisce il discorso sul piano dell’incontro psichiatrico, la cosa non è altrettanto semplice o, comunque, non risulta priva di conseguenze. Se l’incontro con il malato mentale si attua sul corpo, non si può che attuarlo su un corpo che si presume malato, operando un’azione oggettivante di carattere preriflessivo, da cui si deduce la natura dell’approccio da stabilire: in questo caso si impone al malato il ruolo oggettivo sul quale verrà a fondarsi l’istituzione che lo tutela. Il tipo di approccio oggettivante finisce quindi per influire sul concetto di sé del malato, il quale — attraverso un tale processo — non può non viversi che come corpo malato, esattamente nel modo in cui è vissuto dallo psichiatra e dall’istituzione che lo cura.

La scienza ci ha detto, dunque, da un lato, che il malato mentale era da ritenersi il risultato di un’alterazione biologica, non ben identificata, di fronte alla quale non c’era altro da fare che accettarne supinamente la diversità, rispetto alla norma: da qui l’azione esclusivamente custodialistica delle istituzioni psichiatriche, come diretta espressione dell’impotenza di una disciplina che, di fronte alla malattia mentale, si è limitata a definirla, catalogarla e gestirla in qualche modo. D’altro lato, le stesse teorie psicodinamiche, che pure hanno tentato di trovare il senso del sintomo attraverso l’indagine dell’inconscio, hanno mantenuto il carattere oggettivo del paziente, anche se attraverso un tipo diverso di oggettivazione: oggettivandolo, cioè, non più come corpo ma come persona. Cosi come il successivo contributo del pensiero fenomenologico non è riuscito – nonostante la sua disperata ricerca della soggettività dell’uomo — a toglierlo dal terreno dell’oggettivazione in cui si trova gettato: l’uomo e la sua oggettualità sono ancora considerati come un dato, sul quale non c’è possibilità di intervento, oltre ad una generica comprensione.

Queste le interpretazioni scientifiche sul problema della malattia mentale. Ma che cosa sia stato fatto del malato reale lo si può vedere solo all’interno dei nostri manicomi, dove né le denunce dei complessi di Edipo, né le attestazioni del nostro essere-con-nel-mondo-della-minaccia sono serviti a toglierlo dalla passività e oggettualità della sua condizione. Se queste «tecniche» fossero veramente entrate nelle organizzazioni ospedaliere, se si fossero lasciate confrontare e contestare dalla realtà del malato mentale, esse avrebbero dovuto – per coerenza – trasformarsi fino a dilatarsi e compenetrare ogni atto della vita istituzionale. Il che avrebbe minato inevitabilmente la struttura autoritaria coercitiva e gerarchica su cui poggia l’istituzione psichiatrica. Ma il potere eversivo di questi metodi di approccio, si mantiene all’interno di una struttura psicopatologica dove, anziché mettere in discussione l’oggettivazione che viene fatta del malato, si continuano ad analizzare i vari modi di oggettualità: si mantengono, cioè, nel sistema che accetta ogni sua contraddizione come un dato ineliminabile. Unica possibilità sarebbe stata quella di sovrapporre – come in certi casi è stato fatto – alle altre terapie (terapie biologiche, farmacologiche) la psicoterapia individuale o di gruppo, la cui azione sarebbe stata, comunque, negata dal clima custodialistico dell’ospedale tradizionale, o da quello paternalistico dell’ospedale, fondato su basi solo umanitarie. Premessa questa impenetrabilità strutturale delle istituzioni psichiatriche, ad ogni tipo di intervento che vada oltre la loro finalità custodialistica, non possiamo esimerci dal riconoscere che l’unica possibilità di approccio e di rapporto terapeutico è tuttora, quasi generalmente, consentita solo a livello del malato mentale libero, quello cioè che sfugge al ricovero coatto, e per il quale il rapporto con lo psichiatra conserva un margine di reciprocità, strettamente correlato al suo potere contrattuale. In questo caso il carattere integrante dell’atto terapeutico è evidente, nella ricomposizione delle strutture e dei ruoli già messi in crisi, ma non ancora rotti definitivamente dal ricovero.

La situazione (la possibilità di un approccio terapeutico al malato mentale) risulta dunque strettamente legata e dipendente dal sistema, dove ogni rapporto è rigidamente determinato dalle leggi economiche. Ciò significa che non è l’ideologia medica a stabilire o indurre l’uno o l’altro tipo di approccio, quanto piuttosto il sistema socio-economico che ne determina le modalità a livelli diversi.

A ben esaminarla, la malattia – come condizione comune -viene ad assumere un significato concretamente diverso, a seconda del livello economico sociale di chi è malato.

Ciò non significa che la malattia non esiste, ma si puntualizza un fatto reale di cui si deve tener conto, qualora ci si metta in contatto con il malato mentale dei ricoveri psichiatrici: le conseguenze della malattia mentale sono diverse, a seconda del diverso tipo di approccio che con essa si instaura. Queste «conseguenze» (e mi riferisco al livello di distruzione e di istituzionalizzazione del ricoverato nei manicomi provinciali) non possono essere ritenute come la diretta evoluzione della malattia, quanto del tipo di rapporto che lo psichiatra, e quindi la società che egli rappresenta, instaura con lui:

1) Il rapporto di tipo aristocratico dove il paziente ha un potere contrattuale da opporre al potere tecnico del medico. In questo caso esso si mantiene su un piano di reciprocità al solo livello dei ruoli, dato che si attua fra il ruolo del medico (alimentato dal mito del proprio potere tecnico) e il ruolo sociale del malato che viene ad agire come l’unica garanzia di controllo sull’atto terapeutico di cui è oggetto. Nella misura in cui il malato cosiddetto libero fantasmatizza il medico come il depositario di un potere tecnico, gioca contemporaneamente il ruolo di depositario di un altro tipo di potere: quello economico, che il medico fantasmatizza in lui. Benché si tratti di un incontro di poteri più che di uomini, il malato non soggiace passivamente al potere del medico, almeno finché il suo valore sociale corrisponde ad un valore economico effettivo, perché – una volta che questo venga esaurito – il potere contrattuale scompare, ed il paziente si troverà ad iniziare la reale «carriera del malato mentale» nel luogo in cui la sua figura sociale non avrà più peso né valore.

2) Il rapporto di tipo mutualistico, dove si assiste ad una riduzione del potere tecnico e ad un aumento di potere arbitrario, di fronte ad un «mutuato» che non sempre ha la coscienza della propria forza. Qui la reciprocità del rapporto è già sfumata, per ripresentarsi – reale – nei casi in cui vi sia una presa di coscienza da parte del paziente della propria posizione sociale e dei propri diritti, di fronte ad una istituzione che dovrebbe essere creata per tutelarli. Quindi la reciprocità esiste, in questo caso, soltanto in presenza di un notevole grado di maturità e di coscienza di classe da parte del paziente; mentre il medico conserva spesso la possibilità di determinare, come meglio gli aggrada, il rapporto, riservandosi di rientrare nel terreno del potere tecnico nel momento in cui gli venga contestata la sua azione arbitraria.

3) Il rapporto istituzionale nel quale aumenta vertiginosamente il potere puro del medico (non è più neppure necessario che sia potere tecnico), proprio perché diminuisce vertiginosamente quello del malato che, per il fatto stesso di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico, diventa — automaticamente — un cittadino senza diritti, affidato all’arbitrio del medico e degli infermieri, che possono far di lui ciò che vogliono, senza possibilità di appello. Nella dimensione istituzionale, la reciprocità non esiste, né la sua assenza viene in qualche modo mascherata. È qui che si vede – senza veli e senza ipocrisie – ciò che la scienza psichiatrica, come espressione della società che la delega, ha voluto fare del malato mentale. Ed è qui che si evidenzia come non sia tanto in gioco la malattia, quanto la mancanza di valore contrattuale di un malato, che non ha altra alternativa per opporsi che il comportamento abnorme.

Questo abbozzo di analisi dei modi diversi di affrontare e di vivere la malattia mentale, di cui per ora non conosciamo che questa faccia in questo contesto, evidenzia che il problema non è quello della malattia in sé (che cosa sia, quale la causa, quale la prognosi), ma soltanto di quale tipo sia il rapporto che viene ad instaurarsi con il malato. La malattia, come entità morbosa, gioca un ruolo puramente accessorio dato che, pur essendo essa il denominatore comune di tutte e tre le situazioni suggerite, nell’ultimo caso sempre, nel secondo spesso, assume un significato stigmatizzante che conferma la perdita del valore sociale dell’individuo, già implicita nel modo in cui la sua malattia era stata precedentemente vissuta.

Se dunque non è la malattia l’elemento determinante della condizione del malato mentale, cosi come appare nei nostri asili psichiatrici, sono ora da esaminare gli elementi ad essa estranei che pure vi giocano una parte tanto importante. Analizzando la situazione dell’internato in un ospedale psichiatrico (che insistiamo nel ritenere l’unico malato stigmatizzato al di fuori della malattia, e quindi l’unico di cui intendiamo qui occuparci) potremmo incominciare a dire che egli appare, prima di tutto, come un uomo senza diritti, soggetto al potere dell’istituto, quindi alla mercé dei delegati (i medici) della società, che lo ha allontanato ed escluso. Si è già visto che la sua esclusione o espulsione dalla società è però più strettamente legata al suo mancato potere contrattuale (alla sua condizione sociale ed economica) che non alla malattia in sé. Quale può essere il valore tecnico, scientifico della diagnosi clinica con la quale è stato definito al momento del ricovero ? Si può parlare di una diagnosi clinica obiettiva, legata a dati scientifici concreti? O non si tratta invece di una semplice etichetta che – sotto la parvenza di un giudizio tecnico-specialistico – nasconde, neppure troppo velatamente, il suo più profondo significato discriminante? Uno schizofrenico abbiente, ricoverato in una casa di cura privata, avrà una prognosi diversa da quella dello schizofrenico povero, ricoverato con l’ordinanza in ospedale psichiatrico. Ciò che caratterizzerà il ricovero del primo, non sarà soltanto il fatto di non venire, automaticamente etichettato come un malato mentale «pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo», ma il tipo di ricovero di cui gode lo tutelerà dal venire desto-rificato, separato dalla propria realtà. Il ricovero «privato» non interrompe sempre il continuum dell’esistenza del malato, né riduce o abolisce in modo irreversibile il suo ruolo sociale. Per questo, superato il periodo critico, gli sarà facile essere reinserito nella società. Il potere destorificante, distruttivo, istituzionalizzante a tutti i livelli dell’organizzazione manicomiale, si trova ad agire solo su coloro che non hanno altra alternativa oltre l’ospedale psichiatrico.

Si può, a questa luce, continuare a pensare che il numero dei ricoverati negli istituti psichiatrici corrisponda ai malati di mente di tutti gli strati della nostra società, e che quindi sia solo la malattia a ridurli al grado di oggettivazione in cui si trovano? O non sarebbe invece più giusto ritenere che – proprio perché socio-economicamente insignificanti – questi malati sono oggetto di una violenza originaria (la violenza del nostro sistema sociale) che li spinge fuori della produzione, ai margini della vita associata, fino alle mura dell’ospedale? Non sono, in definitiva, i rifiuti, gli elementi di disturbo di questa nostra società che non vuole riconoscersi nelle proprie contraddizioni? Non si tratta, semplicemente, di coloro che, partendo da una posizione sfavorevole, sono già persi in partenza? Come potremmo continuare a giustificare il nostro rapporto esclusorio nei confronti di questi internati, dei quali è stato troppo facile definire ogni atto, ogni reazione in termini di malattia?

La diagnosi ha ormai assunto il valore di un etichettamen-to che codifica una passività data come irreversibile. Ma questa passività può essere di natura diversa e non solo, o non sempre, malata. È nel momento in cui essa viene considerata solo in termini di malattia, che viene confermata la necessità della sua separazione ed esclusione, senza che il minimo dubbio intervenga a riconoscere alla diagnosi un significato discriminante. In questo modo l’esclusione del malato dal mondo dei sani, libera la società dai suoi elementi critici e, insieme, conferma e sancisce la validità del concetto di norma da essa stabilito. Da queste premesse, il rapporto fra il malato e chi si cura di lui non può che essere oggettuale, dato che la comunicazione fra l’uno e l’altro avviene solo attraverso il il filtro di una definizione, di un’etichetta che non consente possibilità di appello.

Questo modo di avvicinare la questione ci schiude davanti agli occhi una realtà rovesciata, dove il problema non è più quello della malattia in sé, quanto quello del rapporto che con essa si stabilisce. Ma in questo rapporto si trova coinvolto, come parte in causa, sia il malato con la sua malattia, che il medico, e quindi la società, che la giudica e la definisce: l’oggettivazione non è la condizione obiettiva del malato, ma risiede all’interno del rapporto fra malato e terapeuta, quindi all’interno del rapporto fra il malato e la società che ne delega al medico la cura e la tutela. Ciò significa che è il medico ad aver bisogno di un’oggettività su cui poter affermare la propria soggettività; cosi com’è la nostra società ad aver bisogno di aree di compenso dove poter relegare e nascondere le proprie contraddizioni. Il rifiuto della condizione disumana in cui si trova il malato mentale; il rifiuto del livello di oggettivazione in cui è stato lasciato, non può non presentarsi strettamente legato alla messa in crisi dello psichiatra, della scienza cui egli si riferisce, e della società di cui è il rappresentante. Lo psichiatra, la scienza, la società si sono praticamente difesi dal malato mentale e dal problema della sua presenza fra noi: di fronte ad un malato già violentato dalla famiglia, dal luogo di lavoro, dal bisogno, noi eravamo i detentori del potere e la nostra difesa si è inevitabilmente tramutata in un’offesa senza misura, ammantando la violenza che abbiamo continuato ad usare nei confronti del malato sotto il velo ipocrita della necessità e della terapia.

Ora, di che tipo può essere il rapporto con questi malati, una volta che sia puntualizzata quella che Goffman1 definisce la «serie di contingenze di carriera» estranee alla malattia? Il rapporto terapeutico non agisce – in realtà – come una nuova violenza, come un rapporto politico tendente all’integrazione, nel momento in cui lo psichiatra – come delegato della società – ha il mandato di curare i malati attraverso atti terapeutici che hanno l’unico significato di aiutarli ad adattarsi alla loro condizione di «oggetti di violenza»? Ciò non significa che lo psichiatra conferma agli occhi del malato che l’essere oggetto di violenza è l’unica realtà concessagli, al di là delle diverse modalità di adattamento che potrà adottare?

Se accettiamo supinamente questo mandato, nell’accettazione del nostro ruolo, non siamo noi stessi oggetto della violenza del potere che ci impone di agire nella direzione da esso determinata? In questo senso la nostra azione attuale non può essere che una negazione che, nata come rovesciamento istituzionale e scientifico, giunge al rifiuto dell’atto terapeutico come risolutivo di conflitti sociali, che non possono essere superati attraverso l’adattamento di chi li subisce. I primi passi di questo rovesciamento si sono, dunque, attuati attraverso la proposta di una nuova dimensione istituzionale che abbiamo definito, all’inizio, una comunità terapeutica, prendendo a modello quella anglosassone.

Le prime esperienze psichiatriche a carattere comunitario si possono infatti far risalire al ’42, in Inghilterra, dove il pragmatismo anglosassone, svincolato dal pensiero per lo più ideologico dei paesi continentali di influsso tedesco, era riuscito a liberarsi della sclerotica visione del malato mentale, come entità irrecuperabile, attraverso l’enfatizzazione del problema della istituzionalizzazione, causa prima del fallimento psichiatrico asilare. Le esperienze di Main e quelle successive di Maxwell Jones furono, infatti, i primi passi di quella che doveva diventare la nuova psichiatria istituzionale comunitaria, basata su presupposti di carattere prevalentemente sociologico.

Contemporaneamente, in Francia iniziava un grosso movimento istituzionale psichiatrico che faceva capo a Tosquelles. Esule antifranchista della guerra civile spagnola, Tosquelles era entrato come infermiere nell’Ospedale Psichiatrico di Saint-Alban, un piccolo paese del massiccio centrale francese, dove – addottoratosi nuovamente in medicina -aveva in seguito ottenuto la direzione dell’istituto. Anche qui un piccolo ospedale – non un centro studi, né un nuovo istituto di indagini psichiatriche – è il terreno in cui nasce, nella prassi e sul piano della necessità, un nuovo linguaggio e una nuova dimensione psichiatrica istituzionale, basata su presupposti psicoanalitici.

Le due tendenze che, sul piano teorico avevano due diverse partenze, sul piano pratico rivelano la validità delle loro impostazioni nel comune rovesciamento di una ideologia, ormai cristallizzata nella contemplazione e nella dissertazione sulla malattia come entità astratta, nettamente separata dal malato nell’istituto psichiatrico.

I paesi di lingua tedesca, invece, legati alla rigida ideologia teutonica, stanno tuttora tentando di risolvere dal vertice il problema degli asili psichiatrici, nell’edificazione di strutture perfezionate, in cui continua a dominare l’atteggiamento custodialistico. Basti citare l’esempio di Gütersloh, l’ospedale di Herman Simon, ora diretto da Winkler, dove non si assiste che al perfezionamento tecnico dell’ideologia ergote-rapica di Simon. La stessa psichiatria sociale, ora in auge, non è qui espressione della presa di coscienza del fallimento della psichiatria asilare (con conseguente presa di coscienza dell’oggettivazione del malato a livello istituzionale e scientifico), quanto piuttosto il frutto di un bisogno di aggiornamento intellettuale che non può portare ad altro che all’edificazione di istituti di psichiatria sociale, come quello che sorgerà – nuova Brasilia della psichiatria tedesca — a Magonza, sotto la direzione di Hafner.

Anche in Italia, dove la cultura psichiatrica ufficiale ha sentito soprattutto l’influsso del pensiero tedesco, la situazione istituzionale si è mossa lentamente, con anni di ritardo rispetto a quella inglese e francese. Sia l’esperienza di tipo «settoriale» di netta derivazione francese2,che quella «comunitaria» di cui si va qui trattando, avevano, dunque, dei precedenti cui riferirsi. Tuttavia, per quanto riguarda la nostra esperienza, si sentiva urgente il bisogno di interventi che dovessero essere adeguati alla realtà su cui si agiva, e non potevano ridursi all’adattamento di modelli già codificati, applicabili ad ogni situazione. Per questo, la scelta del modello anglosassone della comunità terapeutica voleva essere la scelta di un punto di riferimento generico, che potesse giustificare i primi passi di un’azione di negazione della realtà manicomiale. Essa passava, però, inevitabilmente, attraverso la negazione di ogni classificazione nosografica, le cui suddivisioni ed elaborazioni risultavano ideologiche rispetto alla condizione reale del malato. Il riferimento al modello anglosassone è, dunque, risultato valido fino al momento in cui il campo d’azione si è andato trasformando e la realtà istituzionale ha mutato faccia.

Nei passi successivi, la definizione di comunità terapeutica per la nostra istituzione, si è rivelata ambigua perché poteva, come tuttora può, essere intesa come la proposta di un modello risolutivo (il momento positivo di una negazione, che si propone come definitivo) che, quando sia accettato e inglobato nel sistema, viene a perdere la sua funzione contestante. Comunque, seguendo passo passo le varie fasi evolutive di questo nostro rovesciamento istituzionale, risulterà più chiara la necessità di un continuo rompersi delle linee d’azione che — inserite nel sistema – proprio per questo loro inserimento devono venire mano a mano negate e distrutte.

La nostra comunità terapeutica è nata, dunque, come il rifiuto di una situazione proposta come un dato anziché come un prodotto. Il primo contatto con la realtà manicomiale ha subito evidenziato le forze in gioco: l’internato, anziché apparire come un malato, risulta l’oggetto di una violenza istituzionale che agisce a tutti i livelli, perché ogni azione contestante è stata definita entro i limiti della malattia. Il livello di degradazione, oggettivazione, annientamento totale in cui si presenta, non è l’espressione pura di uno stato morboso, quanto piuttosto il prodotto dell’azione distruttiva di un istituto, la cui finalità era la tutela dei sani nei confronti della follia. Tuttavia, una volta sfrondato il paziente delle sovrastrutture e delle incrostazioni istituzionali, ci si accorge che egli è ancora l’oggetto di una violenza che la società ha usato e continua ad usare nei suoi confronti, nella misura in cui — prima di essere un malato mentale – egli è un uomo senza potere sociale, economico, contrattuale: una semplice presenza negativa, ridotta ad essere aproblematica e acontraddittoria, per mascherare la contraddittorietà della nostra società.

Come dedicarsi, in questa situazione, alla malattia come dato? Dove riconoscerla, dove individuarla se non in un altrove che non ci è ancora possibile toccare? Possiamo ignorare la natura della distanza che ci separa dal malato, imputandone la causa solo alla malattia? O non vogliamo prima togliere, ad una ad una, le scorze dell’oggettivazione, per vedere che cosa resta?

Se dunque il primo momento di quest’azione eversiva può essere emotivo (nel senso che si rifiuta di considerare il malato un non uomo), il secondo non può che essere la presa di coscienza del suo carattere politico, nel senso che ogni azione svolta nei confronti del malato, continua ad oscillare fra l’accettazione supina o il rifiuto della violenza, sulla quale il nostro sistema socio-politico si fonda. L’atto terapeutico si rivela un atto politico di integrazione, qualora tenda a ricomporre, ad un livello regressivo, una crisi già in atto; a ricomporre cioè la crisi, facendo retrocedere alla accettazione di ciò che l’ha provocata.

È nato cosi, sul terreno pratico, un processo di liberazione che, partendo da una realtà violenta e altamente repressiva, ha tentato la via del rovesciamento istituzionale. Rivedendo ora i passi graduali di questo processo – attraverso la presentazione di stralci di lavori, cronologicamente ordinati, sulla elaborazione concettuale della pratica in atto – risulterà forse più facile chiarire il significato di questa azione che rifiuta di proporsi come un modello risolutivo, i cui risultati si limiterebbero a confermare il sistema.

Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano la «revolution surrealiste», indirizzato ai direttori dei manicomi, cosi concludeva: «Domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza».

Quarant’anni dopo – legati come gran parte dei paesi europei, ad una legge antica ancora incerta fra l’assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura – la situazione non è di molto mutata: limiti forzati, burocrazia, autoritarismo regolano la vita degli internati per i quali già Pinel aveva clamorosamente reclamato il diritto alla libertà… Lo psichiatra sembra, infatti, riscoprire solo oggi che il primo passo verso la cura del malato è il ritorno alla libertà di cui finora egli stesso lo aveva privato. La necessità di un regime, di un sistema nella complessa organizzazione dello spazio chiuso nel quale il malato mentale è stato isolato per secoli, richiedeva al medico il solo ruolo di sorvegliante, di tutore interno, di moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare: il valore del sistema superava quello dell’oggetto delle sue cure. Ma oggi lo psichiatra si rende conto che i primi passi verso la «apertura» del manicomio producono nel malato una graduale trasformazione del suo porsi, del suo rapporto con la malattia e col mondo, della sua prospettiva delle cose, ristretta e rimpicciolita, non solo dalla condizione morbosa, ma dalla lunga ospedalizzazione. Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale… viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione…

Ma attraverso la realizzazione di queste prime tappe verso la trasformazione del manicomio in un ospedale di cura, il malato… non si presenta più come un uomo rassegnato e docile ai nostri voleri, intimidito dalla forza e dall’autorità di chi lo tutela… Ma si presenta come un malato il quale, reso oggetto dalla malattia, non accetta più di essere oggettivato dallo sguardo del medico che lo tiene a distanza. L’aggressività che « come espressione della malattia ma, soprattutto, dell’istituzionalizzazione, rompeva di tanto in tanto lo stato di apatia e di disinteresse – cede il passo in molti pazienti ad una nuova aggressività sorta dall’oscuro sentire, al di là dei loro particolari deliri, di essere «ingiustamente» considerati non uomini, soltanto perché sono «in manicomio».

È in questo momento che il ricoverato, con un’aggressività che trascende dunque la sua stessa malattia, scopre il suo diritto a vivere una vita umana…

Ora, perché il manicomio, dopo la graduale distruzione delle sue strutture alienanti, non abbia a declinarsi in un ridente asilo di servi riconoscenti, l’unico punto su cui sembra di poter far leva è appunto l’aggressività individuale. Su qi lista aggressività, che è ciò che noi psichiatri cerchiamo per una autentica relazione con il paziente, potremo impostare un rapporto di tensione reciproca che, solo, può essere in grado – attualmente – di rompere i legami di autorità e di paternalismo, causa fino a ieri di istituzionalizzazione… (agosto 1964).

… La situazione cui ci si è trovati di fronte nella nostra istituzione si presentava altamente istituzionalizzata in tutti i suoi settori: malati, infermieri, medici… Si cercò quindi di provocare una situazione di rottura che potesse far uscire i tre poli della vita ospedaliera dai loro ruoli cristallizzati, ponendoli in un gioco di tensione e controtensione in cui tutti si sarebbero trovati coinvolti e responsabili. Significava entrare nel «rischio», il quale solo poteva mettere allo stesso livello medici e malati, malati e staff, uniti nella stessa causa, tesi verso uno scopo comune. Su questa tensione dovevano poggiare le basi della nuova struttura da edificare: allentandosi questa, tutto sarebbe tornato alla precedente situazione istituzionalizzata… La nuova organizzazione interna sarebbe cosf incominciata a svilupparsi dalla base invece di partire dal vertice, nel senso che, anziché presentarsi come uno schema cui la vita comunitaria dovesse aderire, sarebbe stata la vita comunitaria stessa a creare un ordine nato dalle sue esigenze e dalle sue necessità: l’organizzazione, invece di basarsi su una regola imposta dall’alto, sarebbe diventata essa stessa un atto terapeutico…

Tuttavia, se la malattia è anche legata, come nella maggior parte dei casi, a fattori socio-ambientali, a livelli di resistenza all’urto di una società che non tiene conto dell’uomo e delle sue esigenze, la soluzione di un così grave problema non può che essere trovata in una impostazione socio-economica, tale da consentire anche il graduale reinserimento di questi elementi che non hanno retto allo sforzo, che non hanno sostenuto il gioco. Qualsiasi tentativo si possa compiere nell’avvicinarsi a questo problema, si limiterà solo a dimostrare che l’attuazione di un simile passo è possibile, ma resterà inevitabilmente isolato e quindi privo del minimo significato sociale, se ad esso non si unisca un movimento strutturale di base che abbia a tener conto di ciò che avviene quando un malato mentale viene dimesso, del lavoro che non trova, dell’ambiente che lo respinge, delle circostanze che, anziché aiutarlo a reinserirsi, lo spingono gradualmente verso le mura dell’ospedale psichiatrico. Parlare di una riforma della legge psichiatrica attuale, significa voler affrontare, non solo nuovi sistemi e regole su cui fondare la nuova organizzazione, ma soprattutto i problemi di carattere sociale che sono a essa collegati… (marzo 1965).

…Analizzando ora quali forze abbiano potuto agire cosi profondamente sul malato da arrivare ad annientarlo, si riconosce che una sola è in grado di provocare simili danni: l’autorità. Un’organizzazione basata sul solo principio di autorità, il cui scopo primo sia l’ordine e l’efficienza, deve scegliere fra la libertà del malato (e quindi la resistenza che può opporgli) ed il buon andamento del ricovero. È stata sempre scelta l’efficienza e il malato è stato sacrificato in suo nome… Ma dopo che con la loro azione i farmaci hanno concretamente reso evidente allo psichiatra di non trovarsi di fronte ad una malattia, ma ad un uomo malato, egli non può continuare a considerarlo come un elemento da cui la società deve essere protetta. Questa società tenderà sempre a difendersi da ciò che le fa paura e ad imporre il suo sistema di restrizioni e di limiti alle organizzazioni delegate a curare i malati mentali: ma lo psichiatra non può continuare ad assistere alla distruzione del malato a lui affidato, reso oggetto, ridotto a cosa da una organizzazione che, anziché cercare il dialogo con lui, continua a parlare fra sé…

Per riabilitare l’istituzionalizzato che vegeta nei nostri asili, sarà quindi più importante sforzarci – prima di costruirgli attorno un nuovo spazio accogliente, umano di cui pure ha bisogno – di risvegliare in lui un sentimento di opposizione al potere che lo ha finora determinato ed istituzionalizzato. Dal risveglio di questo sentimento, il vuoto emozionale in cui il malato ha vissuto per anni, tornerà a riempirsi delle forze personali di reazione, di conflitto, dell’aggressività sulla quale – sola – sarà possibile far leva per la sua riabilitazione…

Ci si trova dunque di fronte alla necessità di un’organizzazione e alla impossibilità di concretarla; davanti al bisogno di formulare un abbozzo di sistema cui riferirsi, per subito trascenderlo e distruggerlo; al desiderio di provocare dall’alto gli avvenimenti e alla necessità di attendere che essi si elaborino e si sviluppino dalla base; davanti alla ricerca di un nuovo tipo di rapporto fra malato, medico, staff e società in cui il ruolo protettivo dell’ospedale venga equamente diviso fra tutti…; davanti alla necessità di mantenere un livello di conflitto tale da stimolare, anziché reprimere, l’aggressività, le forze di reazione individuali di ogni singolo malato (giugno 1965).

La costituzione di un complesso ospedaliero retto comunitariamente e basato su premesse che tendano alla distruzione del principio di autorità, ci pone però in una situazione che va slittando dal piano di realtà sul quale vive la società attuale. È per questo che un tale stato di tensione non può che essere mantenuto da una radicale presa di posizione da parte dello psichiatra, che vada oltre il suo ruolo e si concreti in un’azione di smantellamento della gerarchia di valori su cui si fonda la psichiatria tradizionale. Ciò ci richiede, tuttavia, di uscire dai nostri ruoli per rischiare di persona, per tentare l’abbozzo di qualcosa che, seppure già avrà in sé i germi dei futuri errori, ci aiuti, per il momento, a rompere questa situazione cristallizzata, senza aspettare che siano solo le leggi a sancire le nostre azioni…

La comunità terapeutica, così intesa, non può che essere in opposizione alla realtà sociale in cui si vive perché – basata com’è su dei presupposti che tendono a distruggere il principio di autorità nel tentativo di programmare una condizione comunitariamente terapeutica – essa si pone in netta antitesi con i principi informatori di una società, ormai identificata con le regole che, al di là di ogni possibile intervento individuale, la convogliano in un ritmo di vita anonimo, impersonale, conformista (febbraio 1966).

… In Italia, tuttavia, siamo ancora legati ad uno scetticismo e ad una pigrizia che non hanno giustificazioni.

L’unica spiegazione può essere data in chiave socio-economica: il nostro sistema sociale – ben lontano dall’essere un regime economico di pieno impiego – non può essere interessato alla riabilitazione del malato mentale che non potrebbe essere recepito da una società, dove non è risolto appieno il problema del lavoro dei suoi membri sani.

In questo senso ogni esigenza di carattere scientifico da parte della psichiatria, rischia di perdere il suo significato più importante – il suo aggancio appunto sociale – se alla sua azione all’interno di un sistema ospedaliero ormai in sfacelo, non si unisce un movimento strutturale di base, che abbia a tener conto di tutti i problemi di carattere sociale che sono legati all’assistenza psichiatrica.

Se quello della comunità terapeutica può essere, dunque, considerato un passo necessario nell’evoluzione dell’ospedale psichiatrico (necessario soprattutto per la funzione che ha avuto e che tuttora ha di smascheramento di ciò che il malato mentale era ritenuto e non è, e per l’individuazione dei ruoli prima inesistenti al di fuori di un livello autoritario) non può però considerarsi la meta finale verso cui tendere, quanto piuttosto una fase transitoria in attesa che la situazione stessa si evolva in modo da fornirci nuovi elementi di chiarificazione…

La comunità terapeutica è un luogo nel quale tutti i componenti (e ciò è importante) – malati, infermieri e medici -sono uniti in un impegno totale dove le contraddizioni della realtà rappresentano l’humus dal quale scaturisce l’azione terapeutica reciproca. È il gioco delle contraddizioni – anche a livello dei medici fra loro, medici e infermieri, infermieri e malati, malati e medici – che continua a rompere una situazione che, altrimenti, potrebbe facilmente portare ad una cristallizzazione dei ruoli.

Vivere dialetticamente le contraddizioni del reale è dunque l’aspetto terapeutico del nostro lavoro. Se tali contraddizioni – anziché essere ignorate o programmaticamente allontanate nel tentativo di creare un mondo ideale – vengono affrontate dialetticamente; se le prevaricazioni degli uni sugli altri e la tecnica del capro espiatorio – anziché essere accettati come inevitabili – vengono dialetticamente discusse, cosi da permettere di comprenderne le dinamiche interne, allora la comunità diventa terapeutica. Ma la dialettica esiste solo quando ci sia più di una possibilità, cioè un’alternativa. Se il malato non ha alternative, se la sua vita gli si presenta già prestabilita, organizzata e la sua partecipazione personale consiste nell’adesione all’ordine, senza possibilità di scampo; si troverà imprigionato nel terreno psichiatrico, cosi come si trovava imprigionato nel mondo esterno di cui non riusciva ad affrontare dialetticamente le contraddizioni. Come la realtà che non riusciva a contestare, l’istituto cui non può opporsi, non gli lascia che un unico scampo: la fuga nella produzione psicotica, il rifugio nel delirio dove non c’è né contraddizione né dialettica…

Primo passo – causa e nello stesso tempo effetto del passaggio dalla ideologia custodialistica a quella più propriamente terapeutica – risulta quindi il mutamento dei rapporti interpersonali fra coloro che agiscono nel campo. Mutamento che, con il variare o il costituirsi di motivazioni valide, tende a formare nuovi ruoli che non presentano più alcuna analogia con quelli della precedente situazione tradizionale. È questo terreno ancora informe, dove ogni personaggio va alla ricerca del suo ruolo, che costituisce la base da cui prende l’avvio la nuova vita terapeutica istituzionale.

Nella situazione comunitaria il medico, quotidianamente controllato e contestato da un paziente che non si può allontanare né ignorare, perché costantemente presente a testimoniare i suoi bisogni, non può arroccarsi in uno spazio che potremmo definire asettico, dove poter ignorare la problematica che la malattia stessa gli propone. Né può risolversi in un dono generoso di sé che, attraverso il suo inevitabile trascendersi nel ruolo di apostolo munito di una missione, stabilirebbe un altro tipo di distanza e di differenziazione, non meno grave e distruttivo del precedente. La sua unica posizione possibile risulterebbe un nuovo ruolo, costruito e distrutto dal bisogno che il malato ha di fantasmatizzarlo (di renderlo cioè forte e protettivo) e di negarlo (per sentirsi forte a sua volta); ruolo in cui la preparazione tecnica gli consenta – oltre il rapporto strettamente medico con il paziente, che resta inalterato – di seguire e comprendere le dinamiche che vengono a determinarsi, cosi da poter rappresentare, in questa relazione, il polo dialettico che controlla e contesta come viene controllato e contestato.

L’ambiguità del suo ruolo sussiste, comunque, fintantoché la società non chiarirà il suo mandato, nel senso che il medico ha un ruolo preciso che la società stessa gli fissa: controllare un’organizzazione ospedaliera nella quale il malato mentale sia tutelato e curato. Si è visto, tuttavia, come il concetto di tutela (nel senso delle misure di sicurezza necessarie per prevenire e contenere la pericolosità del malato) sia in netto contrasto con il concetto di cura che dovrebbe invece tendere al suo espandersi spontaneo e personale; e come l’uno neghi l’altro. In che modo il medico può conciliare queste due esigenze, in sé contraddittorie, finché la società non chiarirà verso quale dei due poli (la custodia o la cura) vuole orientare l’assistenza psichiatrica?… (ottobre 1966).

… Ogni società, le cui strutture siano basate soltanto su differenziazioni culturali, di classe e su sistemi competitivi, crea in sé aree di compenso alle proprie contraddizioni, nelle quali concretare la necessità di negare o di fissare in una oggettualizzazione una parte della propria soggettività…

Il razzismo in tutte le sue facce non è che l’espressione del bisogno di queste aree di compenso; quanto l’esistenza dei manicomi, quale simbolo di quelle che si potrebbero definire «le riserve psichiatriche» (paragonandole all’apartheid del negro o ai ghetti) è l’espressione di una volontà di escludere ciò che si teme perché ignoto ed inaccessibile. Volontà giustificata e scientificamente confermata da una psichiatria che ha considerato l’oggetto dei suoi studi come incomprensibile e, in quanto tale, da relegare nella schiera degli esclusi…

Il malato mentale è un escluso che, in una società come l’attuale, non potrà mai opporsi a chi lo esclude, perché ogni suo atto è ormai circoscritto e definito dalla malattia. È quindi solo la psichiatria, nel suo duplice ruolo medico e sociale, che può essere in grado di far conoscere al malato che cos’è la malattia e che cosa la società gli ha fatto, escludendolo da sé: solo attraverso la presa di coscienza del suo essere stato escluso, e rifiutato, il malato mentale potrà riabilitarsi dalla condizione di istituzionalizzazione in cui lo si è indotto…

Perché è qui, oltre le mura dei manicomi, che la psichiatria classica ha dimostrato il suo fallimento: nel senso che in presenza del problema del malato mentale, essa lo ha risolto negativamente, escludendolo dal suo contesto sociale ed escludendolo quindi dalla sua stessa umanità… Posto in uno spazio coatto dove mortificazioni, umiliazioni, arbitrarietà sono la regola, l’uomo – qualunque sia il suo stato mentale – si oggettivizza gradualmente nelle leggi dell’internamento, identificandovisi. Il suo erigere la crosta di apatia, disinteresse, insensibilità non sarebbe dunque che il suo estremo atto di difesa contro il mondo che prima lo esclude e poi lo annienta: l’ultima risorsa personale che il malato, cosi come l’internato, oppone, per tutelarsi dalla esperienza insopportabile del vivere coscientemente come escluso.

Ma è solo su questa presa di coscienza della sua posizione di escluso, e della parte di responsabilità che in questa sua esclusione la società ha giocato, che il vuoto emozionale in cui il malato ha vissuto per anni, sarà gradualmente sostituito da una carica di aggressività personale. Essa si risolverà in un’azione di aperta contestazione del reale, che il malato ora rifiuta, non più come atto di malattia, ma perché si tratta veramente di una realtà che non può essere vissuta da un uomo: la sua libertà sarà allora frutto della sua conquista e non un dono del più forte… (dicembre 1966).

… Se originariamente, il malato soffre della perdita della propria identità, l’istituzione e i parametri psichiatrici gliene hanno costruita una nuova attraverso il tipo di rapporto oggettivante che hanno con lui stabilito, e attraverso gli stereotipi culturali con cui lo hanno circondato. Per questo si può dire che il malato mentale, immesso in una istituzione la cui finalità terapeutica risulta ambigua nel suo ostinarsi a rapportarsi ad un corpo malato, ha assunto su di sé l’istituzione stessa come proprio corpo, incorporando l’immagine di sé che l’istituzione gli impone… Il malato, che già soffre di una perdita di libertà quale può essere interpretata la malattia, si trova ad aderire ad un nuovo corpo che è quello dell’istituzione, negando ogni desiderio, ogni azione, ogni aspirazione autonoma che lo farebbero sentire ancora vivo e ancora se stesso. Egli diventa un corpo vissuto nell’istituzione, per l’istituzione, tanto da essere considerato come parte delle sue stesse strutture fisiche.

«Prima di uscire sono stati controllati serrature e malati». Queste sono le frasi che si leggono nelle note consegnate da un turno di infermieri al successivo, per garantire il perfetto ordine del reparto. Chiavi, serrature, sbarre, malati, tutto ciò fa parte dell’arredamento ospedaliero di cui infermieri e medici sono responsabili, senza che una benché minima differenziazione qualitativa li distingua… il malato è ormai soltanto un corpo istituzionalizzato che si vive come oggetto e che – qualche volta, finché non è completamente domato – tenta, attraverso acting-out apparentemente incomprensibili, di riconquistare le qualifiche di un corpo proprio, di un corpo vissuto, rifiutando di identificarsi con l’istituzione.

Attraverso l’approccio antropologico al mondo istituzionale è quindi possibile dare interpretazioni diverse da quelle date alle modalità, tradizionalmente riconosciute come proprie del degente psichiatrico. Il malato è osceno, è disordinato, si comporta in modo sconveniente. Queste sono manifestazioni aggressive nelle quali il malato sta ancora cercando, in modo diverso, in un mondo diverso (forse quello della provocazione) di uscire dall’oggettualità in cui si sente rinchiuso, per testimoniare di esserci comunque. Ma all’interno di un istituto c’è una ragione psicopatologica per ogni avvenimento e una spiegazione scientifica per ogni atto. Così il malato che non poteva essere immediatamente oggettivato al momento del suo ingresso in ospedale, il malato per il quale il medico aveva potuto solo presumere un corpo malato, è ora finalmente domato e rinchiuso in una etichetta che ha tutti i crismi dell’ufficialità scientifica. … È in questa condizione che il paziente si trova in un istituto la cui finalità risulta l’invasione sistematica dello spazio, in lui già ristretto dalla regressione malata. La modalità passiva nella quale l’istituto lo costringe, non gli consente infatti di vivere gli avvenimenti secondo una dialettica interna. Non gli consente di vivere, offrirsi, ed essere con gli altri avendo – insieme – la possibilità di salvaguardarsi, difendersi, rinchiudersi. Il corpo del ricoverato è divenuto soltanto un punto di passaggio: un corpo indifeso, spostato come un oggetto di reparto in reparto, cui viene impedita – concretamente ed esplicitamente – la possibilità di ricostruirsi un corpo proprio che riesca a dialettizzare il mondo, attraverso l’imposizione del corpo unico, aproblematico, senza contraddizioni dell’istituto… Una comunità dunque altamente antiterapeutica, nel suo ostinarsi a presentarsi come un enorme involucro, riempito di tanti corpi che non possono viversi e che stanno li, in attesa che qualcuno se li prenda e li faccia vivere a suo modo: nella schizofrenia, nella psicosi maniaco-depressiva, nell’isterismo. Definitivamente cosificati… (marzo 1967).

…Se dunque la situazione asilare ha rivelato l’antiterapeuticità sostanziale delle sue strutture, una trasformazione che non sia accompagnata da un travaglio interno che le metta in discussione dalla base, risulta del tutto superficiale ed apparente. Ciò che si è rivelato antiterapeutico e distruttivo nelle istituzioni psichiatriche non è una tecnica particolare o un singolo strumento, ma l’intera organizzazione ospedaliera che – tesa com’è all’efficienza del sistema – ha inevitabilmente oggettivato ai suoi occhi il malato che doveva essere l’unica finalità della sua esistenza. Su questa base è evidente che l’immissione di una nuova tecnica terapeutica nel vecchio terreno istituzionale risulta precipitosa, se non addirittura dannosa, nel senso che, messa a nudo per la prima volta la realtà istituzionale come un problema da affrontare, si rischia di ricoprirla velocemente con un nuovo vestito che la presenti sotto una luce meno drammatica. Anche la « socioterapia» come espressione della scelta attuata dalla psichiatria della via dell’integrazione, rischia – al momento attuale – di ridursi ad una semplice copertura di problemi, rivelandosi – come i vestiti dell’Imperatore della favola di Andersen – una copertura in realtà inesistente, dato che la struttura che la sottende non può che negarla e distruggerla… (aprile 1967).

…Non potendo più escludere come problema il malato mentale… si tenta infatti ora di integrarlo in questa stessa società, con tutte le paure e i pregiudizi nei suoi confronti che l’hanno sempre caratterizzata, mediante un sistema di istituzioni che, in qualche modo, la preservi dalla diversità che il malato mentale continua a rappresentare…

Ora ci sono due strade da seguire: o decidiamo di guardarlo in faccia senza più tentare di proiettare in lui il male da cui non vogliamo essere toccati, considerandolo un problema che deve far parte della nostra realtà e quindi non si può eludere; o affrettiamoci – come la nostra società sta già tentando di fare – a sedare la nostra ansia erigendo un nuovo diaframma che aumenti la distanza, appena colmata, fra noi e loro, e costruiamo subito un bellissimo ospedale. Nel primo caso il problema non può però mantenersi entro i limiti ristretti di una «scienza» quale la psichiatria, che non conosce l’oggetto della sua ricerca; ma diventa un problema generale che riveste un carattere più specificamente politico, implicando il tipo di rapporto che la società attuale vuole o non vuole impostare con una parte dei suoi membri… (gennaio 1967).

… Tuttavia, nel momento in cui si mette in discussione la psichiatria tradizionale che – nell’aver assunto a valore metafisico i parametri su cui si fonda il suo sistema – si è rivelata inadeguata al suo compito, si corre il rischio di cadere in un analogo impasse, qualora ci si immerga nella prassi, senza mantenere un livello critico all’interno della prassi stessa… Ciò significa che, volendo partire dal «malato mentale», dal ricoverato dei nostri istituti come unica realtà, c’è il pericolo di avvicinare il problema in modo puramente emotivo. Capovolgendo, in un’immagine positiva, il negativo del sistema coercitivo-autoritario del vecchio manicomio, si rischia di saturare il nostro senso di colpa nei confronti dei malati in un impulso umanitario, capace soltanto di confondere nuovamente i termini del problema… È per questo che si sente l’esigenza di una psichiatria che voglia costantemente trovare la sua verifica nella realtà e che nella realtà trovi però gli elementi di contestazione per contestare se stessa…

La psichiatria asilare riconosca dunque di aver fallito il suo incontro con il reale, sfuggendo alla verifica che – attraverso quella realtà – avrebbe potuto attuare. Una volta sfuggitale la realtà, non ha che continuato a fare della «letteratura», elaborando le sue teorie ideologiche, mentre il malato si trovava a pagare le conseguenze di questa frattura – rinchiuso nell’unica dimensione ritenuta adatta a lui: la segregazione. .. Ma per lottare contro i risultati di una scienza ideologica, bisogna anche lottare per cambiare il sistema che la sostiene.

Se, infatti, la psichiatria – attraverso la conferma scientifica dell’incomprensibilità dei sintomi – ha giocato la sua parte nel processo di esclusione del «malato mentale», essa è da considerarsi, insieme, l’espressione di un sistema che ha finora creduto di negare ed annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica, nel tentativo di riconoscersi ideologicamente come una società senza contraddizioni… Se il malato è l’unica realtà cui ci si debba riferire, si devono affrontare le due facce di cui tale realtà è appunto costituita: quella del suo essere un malato, con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere un escluso, uno stigmatizzato sociale. Una comunità che vuole essere terapeutica deve tener conto di questa duplice realtà — la malattia e la stigmatizzazione -per poter ricostruire gradualmente il volto del malato, cosi come doveva essere prima che la società, con i suoi numerosi atti di esclusione e l’istituto da essa inventato, agissero su di lui con la loro forza negativa (giugno 1967).

… Nel campo reale della prassi il rapporto cosiddetto terapeutico sprigiona infatti dinamiche che – a ben esaminarle – non hanno niente a che fare con la «malattia», ma che, purtuttavia, vi giocano un ruolo non indifferente. Mi riferisco qui, in particolare, al rapporto di potere che si instaura fra il medico e il malato, rapporto nel quale la diagnosi di malattia è un puro accidente, un’occasione al crearsi di un gioco di potere-regressione che sarà invece determinante nei modi di sviluppo della malattia stessa. Si tratti del «potere istituzionale» di carattere pressoché assoluto di cui lo psichiatra è investito all’interno di una struttura asilare, o di un potere cosiddetto «terapeutico», potere «tecnico», potere «carismatico» o potere «fantasmatico», lo psichiatra gode di una situazione di privilegio nei confronti del malato che, già di per sé, inibisce la reciprocità dell’incontro e quindi la possibilità di un rapporto reale. Del resto il malato, proprio in quanto malato mentale, si adeguerà tanto più facilmente a questo tipo di rapporto oggettuale e aproblematico, quanto più vorrà sfuggire la problematicità della realtà cui non sa far fronte. Troverà, dunque, proprio nel rapporto con lo psichiatra, l’avallo alla sua oggettivazione e de-responsabilizzazione, attraverso un tipo di approccio che ne alimenterà e cristallizzerà il livello di regressione…

Lo psichiatra dispone dunque di un potere che finora non gli è servito a capire qualcosa di più del malato mentale e della sua malattia, ma che ha invece usato per difendersi da loro, adoperando – come una delle armi principali — la classificazione delle sindromi e le schematizzazioni psicopatologiche… È per questo che la diagnosi psichiatrica ha inevitabilmente assunto il significato di un giudizio di valore, quindi di un eti-chettamento, poiché – di fronte all’impossibilità di comprendere le contraddizioni della nostra realtà – non resta che scaricare l’aggressività accumulata, sull’oggetto provocatorio che non si lascia comprendere. Ciò significa però che il malato è stato isolato e messo fra parentesi dalla psichiatria perché ci si potesse occupare della definizione astratta di una malattia, della codificazione delle forme, della classificazione dei sintomi, senza temere eventuali possibili smentite da parte di una realtà che, in questo modo, veniva negata… Lo psichiatra dunque si avvale, nella diagnosi, di un potere, di una terminologia tecnica per sancire quello che la società ha già messo in atto nell’escludere da sé colui che non si è integrato nel gioco del sistema. Ma questa sua sanzione non ha il minimo carattere terapeutico, limitandosi essa allo smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è, dove la norma non è un concetto elastico e discutibile, ma qualcosa di fisso e di strettamente legato ai valori del medico e della società di cui è il rappresentante…

Il problema attuale dello psichiatra è dunque solamente un problema di scelta, nel senso che egli si trova ancora una volta nella possibilità di usare gli strumenti, in sua mano, per difendersi dal malato e dalla problematicità della sua presenza. La tentazione di sedare velocemente l’ansia che questo rapporto reale con il malato gli provoca è costante, e pur-tuttavia è essa stessa il segno della reciprocità della sua relazione…

Questo è dunque l’attuale pericolo: la psichiatria è entrata in una crisi reale. Oltre la spaccatura attuata da questa crisi sarebbe ora possibile incominciare a intravedere il malato mentale, spoglio delle etichette che lo hanno finora sommerso o classificato in un ruolo definitivo. Ma il riformismo psichiatrico è già pronto a partire all’attacco con una nuova soluzione, che non può che essere una nuova etichetta che viene a sovrapporsi alle vecchie strutture psicologiche. Il linguaggio viene facilmente imparato e consumato, senza che la parola corrisponda necessariamente all’azione compiuta o da compiere (maggio 1967).

…Crisi psichiatrica, dunque, o crisi istituzionale? L’una e l’altra sembrano tanto strettamente legate da non lasciare intravedere quale sia conseguenza dell’altra. L’una e l’altra presentano infatti un unico denominatore comune: il tipo di rapporto oggettuale impostato con il malato. La scienza, nel considerarlo un oggetto di studio smembrabile secondo un numero infinito di classificazioni o di modalità; l’istituzione, nel considerarlo (in nome dell’efficienza dell’organizzazione, o in nome dell’etichettatura confermatagli dalla scienza) un oggetto della struttura ospedaliera in cui è costretto a identificarsi… Non sarebbe – a questo punto – necessario distruggere quello che è stato fatto, nel timore di restare invischiati in qualcosa che conservi il germe (il virus psicopatologico) di questa scienza, il cui risultato paradossale è stato l’invenzione del malato a somiglianza dei parametri in cui lo ha definito? La realtà non può essere definita a priori: nel momento stesso in cui la si definisce, scompare per diventare un concetto astratto.

Il pericolo, nel momento attuale, è che si voglia risolvere il problema del malato mentale attraverso un perfezionamento tecnico…

In questo caso la psichiatra non farebbe che perpetuare, in organizzazioni attrezzatissime e modernamente edificate o in concettualizzazioni perfettamente logiche, un rapporto che definirei metallico, da strumento a strumento, dove la reciprocità continuerebbe a venir sistematicamente negata.

Quello che traspare dall’analisi della crisi è l’assoluta incomprensibilità da parte della psichiatria della natura della malattia che – tuttora sconosciuta nella sua eziologia – richiede intuitivamente un tipo di rapporto esattamente opposto a quello finora adottato. Ciò che caratterizza attualmente un tale rapporto a tutti i livelli (psichiatra, famiglia, istituzioni, società) è la violenza (la violenza sulla quale una società repressiva e competitiva si fonda) con cui il disturbato mentale viene attaccato e velocemente scrollato di dosso… Che cos’è se non esclusione e violenza quello che spinge i membri cosiddetti sani di una famiglia a convogliare sul più debole la aggressività accumulata dalle frustrazioni di tutti? Che cos’è se non violenza, la forza che spinge una società ad allontanare ed escludere gli elementi che non stanno al suo gioco? Che cos’è se non esclusione e violenza la base su cui poggiano le istituzioni, le cui regole sono stabilite al preciso scopo di distruggere ciò che resta di personale nel singolo, a salvaguardia del buon andamento e della organizzazione generale?…

Analizziamo pure il mondo del terrore, il mondo della violenza, il mondo dell’esclusione, se non riconosciamo che quel mondo siamo noi – poiché siamo le istituzioni, le regole, i principi, le norme, gli ordinamenti e le organizzazioni – se non riconosciamo che noi facciamo parte del mondo della minaccia e della prevaricazione da cui il malato si sente sopraffatto, non potremo capire che la crisi del malato è la nostra crisi… Il malato soffre soprattutto per essere costretto a scegliere di vivere in modo aproblematico e adialettico, poiché le contraddizioni e le violenze della nostra realtà possono essere spesso insostenibili. La psichiatria non ha che accentuato la scelta aproblematica del malato, additandogli l’unico spazio che gli era consentito: lo spazio ad una sola dimensione creato per lui (giugno 1967).

Ma non è la comunità terapeutica, come organizzazione data e fissata entro nuovi schemi, diversi da quelli della psichiatria asilare, che garantisce la terapeuticità della nostra azione. È il tipo di rapporto che viene ad instaurarsi all’interno di questa comunità che la renderà terapeutica, nella misura in cui riuscirà a mettere a fuoco le dinamiche di violenza e di esclusione presenti nell’istituto, cosi come nella intera società; creando i presupposti per una graduale presa di coscienza di questa violenza e di questa esclusione, in modo» che il malato, l’infermiere e il medico – quali elementi costitutivi della comunità ospedaliera e insieme della società globale – abbiano la possibilità di fronteggiarle, dialettizzarle e combatterle, riconoscendole strettamente legate ad una struttura sociale particolare e non come un dato di fatto ineliminabile. All’interno dell’istituzione psichiatrica ogni indagine scientifica sulla malattia mentale in sé, è possibile solo dopo aver eliminato tutte le sovrastrutture che ci rimandano dalla violenza dell’istituto, alla violenza della famiglia e alla violenza della società e di tutte le sue istituzioni (ottobre 1967).

La ricostruzione fatta sulla documentazione del processo di rovesciamento tuttora in atto nella nostra istituzione, non vuole essere la descrizione di una tecnica e di un sistema di lavoro più efficiente o più positivo di un altro. La realtà di oggi non è quella di domani e, nel momento in cui la si fissa, è già snaturata o superata. Si tratta soltanto dell’elaborazione concettuale di un’azione pratica che è andata maturando mano a mano che il sistema di vita concentrazionale cedeva il passo ad un modo più umano di rapporto fra i componenti l’istituzione. I problemi e i modi di affrontarli sono andati modificandosi gradualmente, con il graduale chiarirsi del campo specifico in cui si agiva e con il suo graduale dilatarsi in un terreno più vasto. Questo è ciò che ci interessa nella nostra azione quotidiana.

Tuttavia, secondo la normale prassi – dato che l’istituzione nella quale si agisce è un’istituzione terapeutica – ci viene abitualmente chiesto se la nuova conduzione comunitaria sia la soluzione delle istituzioni psichiatriche; che cosa dicano i dati statistici circa i risultati; se, insomma, i malati guariscano di più. È difficile rispondere in termini quantitativi e, benché anche in questo senso si possano riferire dati classicamente positivi, non ci sembra questo il modo di impostare la questione.

Uno sguardo generale agli ospedali psichiatrici ci può dire che, grosso modo, la terapia farmacologica ha dato ovunque risultati sorprendenti e sconcertanti insieme. I farmaci hanno un’indubbia azione di cui si sono visti i risultati nei nostri asili e nella riduzione del numero dei malati «associati» all’ospedale. Ma – a posteriori – si può incominciare a vedere come questa loro azione si muova, sia a livello del malato che a quello del medico, poiché agiscono contemporaneamente sull’ansia malata, come sull’ansia di chi la cura, evidenziando un quadro paradossale della situazione: il medico seda, attraverso i farmaci che somministra, la sua ansia di fronte ad un malato cui non sa rapportarsi, né trovare un linguaggio comune. Compensa, dunque, in una nuova forma di violenza, la sua incapacità a maneggiare una situazione che giudica ancora incomprensibile, continuando ad applicare l’ideologia medica dell’oggettivazione, attraverso un perfezionismo della stessa. Attraverso l’azione « sedativa» dei farmaci il malato resta tuttora fissato nel ruolo passivo di malato. La positività della situazione che viene a crearsi, è data soltanto da un’apertura al rapporto che ora si rivela possibile, anche se questa possibilità è subordinata al giudizio soggettivo del medico che può sentirne o non sentirne la necessità. D’altra parte i farmaci agiscono sul malato attenuando la percezione della distanza reale che lo separa dall’altro; il che gli fa presumere una possibilità di rapporto, altrimenti negatagli.

In definitiva, ciò che risulta mutato attraverso l’azione dei farmaci non è la malattia, quanto l’atteggiamento apparente (apparente nella misura in cui si tratta sempre di una forma di difesa e quindi di violenza) del medico nei suoi confronti. Il che del resto conferma ciò che si è prima puntualizzato sul fatto che la malattia non sia la condizione obiettiva del malato, ma che ciò che le fa assumere la faccia che ha, risiede nel rapporto con il medico che la codifica e con la società che la nega.

Che nel 1839 – prima dell’era farmacologica – Conolly sia riuscito a creare una comunità psichiatrica completamente libera e aperta, testimonia quanto si va qui affermando.

L’azione dei farmaci ha reso evidente ciò che noi medici non avevamo intuito, più preoccupati della malattia come concetto astratto, che del malato reale. A ben esaminarla, essa suona come una sfida al medico e al suo scetticismo, oltre la quale c’è la possibilità di iniziare un discorso successivo che può comprendere e non comprendere l’azione dei farmaci.

Consapevoli di questo, nel momento in cui la nostra azione pratica viene guardata e giudicata dal pubblico che in essa è direttamente coinvolto, ci si trova di fronte ad una scelta fondamentale: o enfatizziamo il nostro metodo di lavoro che — attraverso una prima fase distruttiva — è riuscito a costruire una nuova realtà istituzionale e ne proponiamo il modello come un modo di risolvere il problema delle istituzioni psichiatriche; o proponiamo la negazione come unica modalità attualmente possibile all’interno di un sistema politico-economico che assorbe in sé ogni affermazione, come nuovo strumento del proprio consolidamento.

Nel primo caso è evidente che la conclusione sarebbe soltanto un’altra faccia della stessa realtà che abbiamo distrutto: la comunità terapeutica come nuovo modello istituzionale risulterebbe un perfezionamento tecnico all’interno sia del sistema psichiatrico tradizionale, che di quello socio-politico generale. Se la nostra azione di negazione è stata quella di evidenziare il malato mentale come uno degli esclusi, uno dei capri espiatori di un sistema sociale, che tenta di negare le proprie contraddizioni – ora il sistema stesso tende a dimostrarsi comprensivo nei confronti di questa esclusione palese: la comunità terapeutica come atto riparato-rio, come risoluzione di conflitti sociali attraverso l’adattamento dei suoi membri alla violenza della società, può assolvere il suo compito terapeutico-integrante, facendo il gioco di coloro contro i quali era originariamente nata. Dopo il primo periodo di clandestinità, dove quest’azione poteva sfuggire al controllo e alla codificazione che l’avrebbe cristallizzata in ciò che doveva solo essere un passo del lungo processo di rovesciamento radicale, la comunità terapeutica è stata ora scoperta come si scopre un nuovo prodotto: guarisce di più come omo lava più bianco. In questo caso, non solo i malati, ma i medici e gli infermieri che hanno contribuito alla realizzazione di questa nuova dimensione istituzionale buona, si troverebbero prigionieri di una prigione senza sbarre, da loro stessi edificata, esclusi dalla realtà su cui presumevano di incidere; in attesa di essere reinseriti e reintegrati nel sistema, che si affretta ad otturare le falle più sfacciatamente evidenti, aprendone altre più sotterranee. L’unica possibilità che ci resti è di conservare il legame del malato con la sua storia – che è sempre storia di sopraffazioni e di violenze — mantenendo chiaro da dove provenga la sopraffazione e la violenza.

Per questo rifiutiamo di proporre la comunità terapeutica come un modello istituzionale che verrebbe vissuto come la proposta di una nuova tecnica risolutrice di conflitti. Il senso del nostro lavoro non può che continuare a muoversi in una dimensione negativa che è, in sé, distruzione e insieme superamento. Distruzione e superamento che vadano oltre il sistema coercitivo-carcerario delle istituzioni psichiatriche, quello ideologico della psichiatria in quanto scienza, per entrare nel terreno della violenza e dell’esclusione del sistema socio-politico, rifiutando di farsi strumentalizzare da ciò che si vuole negare.

Siamo perfettamente consci del rischio che stiamo correndo: essere sopraffatti da una struttura sociale basata sulla norma da essa stabilita e oltre la quale si entra nelle sanzioni previste dal sistema. O ci lasciamo riassorbire e integrare, e la comunità terapeutica si manterrà nei rimiti di una contestazione all’interno del sistema psichiatrico e politico senza intaccarne i valori (il che significa dover ricorrere, per sopravvivere ai propri progetti, ad un’ideologia psichiatrico-comunitaria come soluzione del problema psichiatrico parziale e specifico); o continuare a minare – ora attraverso la comunità terapeutica, domani attraverso nuove forme di contestazione e di rifiuto – la dinamica del potere come fonte di regressione, malattia, esclusione e istituzionalizzazione a tutti i livelli.

La nostra posizione di psichiatri ci pone nella necessità di una scelta diretta: o si accetta di essere gli appaltatori del potere e della violenza (e allora ogni azione di rinnovamento contenuta nei limiti della norma sarà entusiasticamente accettata come la soluzione del problema); o si rifiuta questa ambiguità tentando (nei limiti del possibile, dato che siamo ben consci di far noi stessi parte di questo potere e di questa violenza) di affrontare il problema in modo radicale, esigendo che venga inglobato in un discorso generale che non può accontentarsi di soluzioni parziali, mistificate.

Noi abbiamo operato la nostra scelta che ci obbliga a mantenerci ancorati al malato, come il risultato di una realtà che non si può evitare di chiamare in causa. Per questo ci costringiamo a continue verifiche e superamenti che, troppo superficialmente, vengono interpretati come segni di scetticismo o di incoerenza nei confronti della nostra stessa azione. Solo la verifica delle contraddizioni della nostra realtà può salvarci dal cadere nella ideologia comunitaria, per distruggere i risultati schematici e codificati della quale dovremmo aspettare un nuovo rovesciamento.

Nel frattempo l’establishment psichiatrico definisce – seppure non ufficialmente – il nostro lavoro, come privo di serietà e di rispettabilità scientifica. Il giudizio non può che lusingarci, dato che esso ci accomuna finalmente alla mancanza di serietà e di rispettabilità, da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi.

Note

1 E. Goffman, Asylums, Anchor Books, Doubleday, New York 1961.

2 L’organizzazione di tipo settoriale – prevalentemente orientata e proiettata verso l’esterno – porta in sé il vantaggio di una azione profilattica più capillare e tempestiva. Resta comunque da dire, al riguardo, che se essa non si accompagna anche ad una contemporanea distruzione dell’ospedale psichiatrico come spazio chiuso, forzato e istituzionalizzante, la sua azione verrebbe inficiata dall’esistenza del manicomio, che continuerebbe ad agire come forza minacciosa da cui il malato deve solo fuggire per salvarsi.

L’azione profilattica di un efficiente servizio di igiene mentale sarebbe certo in grado di arrestare l’ingresso in ospedale di gran numero di malati, evitando il pericolo di una ospedalizzazione, con i rischi che essa comporta allo stato attuale dei nostri ospedali psichiatrici. Ma non si può negare che il principio della profilassi psichiatrica esterna continui a muoversi nel clima istituzionalizzante della paura del ricovero: il ricovero sarà il passo estremo cui si sarà costretti se gli altri mezzi non saranno stati in grado di risolvere precedentemente il caso. Né la creazione di strutture quali i cosiddetti «reparti aperti» negli ospedali psichiatrici, risolverebbe il problema, nel senso che continuerebbe a sussistere, anche in sede ospedaliera, il privilegio dei fortunati ivi ricoverati con l’impegnativa mutualistica, contrapposto ai «reparti chiusi» in cui continuerebbero a venir immersi e bollati i «ricoverati d’ordinanza».

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