Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – La soluzione finale

Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – La soluzione finale

In «Che fare», 2, Milano 1967

Karl Jaspers, in un recente numero di «Die Spiegel», ha dichiarato – senza esitazioni e senza pudori – che sarebbe finalmente auspicabile un’alleanza fra russi e americani, per distruggere con bombardamenti atomici la Cina maoista. Il ventennio che separa Karl Jaspers, che negava ogni complicità con il nazismo rifiutando di rientrare in Germania alla fine del conflitto, ha avuto il potere di smascherare la malafede che, evidentemente, sottendeva l’impostazione filosofica del suo pensiero.

Nel 1911 Jaspers aveva aperto, con la sua Allgemeine Psychopathologie un nuovo indirizzo «scientifico» – la psichiatria comprensiva – che, come primo atto di umanizzazione di una scienza disumana, pareva far uscire la psichiatria dall’impasse positivistica in cui era rimasta invischiata. Il concetto di comprensibilità era stato accolto dal pensiero scientifico tradizionale, come un principio rivoluzionario, nella misura in cui si imponeva di avvicinare e di comprendere il malato, senza limitarsi a classificarne la malattia. Tuttavia, esso manteneva il medesimo tipo di distanza fra l’incomprensibile e il sano, continuando a sancire quest’ultimo come unico valore di riferimento. L’incomprensibile conservava, all’interno della psichiatria comprensiva, il suo eterno ruolo di escluso, evidenziando la funzione discriminante di una scienza che, nata come rivoluzionaria, aveva finito per avallare il gioco del potere. Il significato dell’ultima dichiarazione di Jaspers appare, dunque, coerente alle premesse: il padre di quella che era stata la nuova psichiatria antipositivistica (che, ciononostante, aveva accettato il determinismo dell’incomprensibile) rivela, alla fine della carriera, il suo razzismo, anche se all’epoca del conflitto hitleriano si è schierato dalla parte degli esclusi.

Qual era il senso del suo rifiuto al nazismo, se venti anni dopo auspica la distruzione di un popolo di 700 milioni di uomini, a difesa dell’establishment? In che modo può essere giustificata la sua proposta, se non come il riconoscimento dei cinesi come altri, incomprensibili, e, come tali, da distruggere? L’ebreo non era stato gassato proprio in quanto altro dall’ariano? Come mai un uomo che si era rifiutato di riconoscersi tedesco, può proporre, come soluzione di uno stato di tensione mondiale, di negare in un unico atto di esclusione 700 milioni di uomini? Le sue parole sono forse diverse da quelle che, più di trent’anni fa, decretarono la morte di 6 milioni di ebrei?

Nel 1933 Streicher diceva: «È stato un errore credere che il problema ebraico possa essere risolto senza spargimento di sangue: la soluzione non può avvenire altrimenti che in maniera cruenta».

Goebbels rispondeva: «A morte gli ebrei. Questo è stato per quattordici anni il nostro grido di guerra. Crepino una buona volta!» («Sunday Referee», 30 luglio 1933, citato da D. Tarizzo, in Ideologia della morte).

Nel 1967 Karl Jaspers propone: se non ci sono altre soluzioni, sacrifichiamo i cinesi!

Il concetto del comprensibile e dell’incomprensibile nella malattia mentale non poteva che arenarsi su un terreno razzista e classista. Quando il governatore dell’Alabama divide la popolazione del suo stato in bianchi e neri non fa che applicare il principio jasperiano della divisione fra chi è come lui e chi non lo è; quando i soldati americani bombardano i Vietcong, non fanno che seguire il medesimo principio, secondo il quale si deve annientare e distruggere tutto ciò che – in quanto diverso – può mettere in discussione la propria posizione. Solo l’esclusione dell’altro, del diverso, consente al potere di conservare la propria ideologia, senza tener conto delle sue contraddizioni. Ma il non tener conto delle proprie contraddizioni significa anche assumere l’ipotesi da cui si è partiti come un dato di fatto, la cui verifica è da evitare se non si vuole rischiare di venirne smentiti.

Escludere significa affermare un’appartenenza nel momento in cui la si nega. Ciò che viene escluso, è riconosciuto e dichiarato come proprio dallo stesso atto di esclusione, che lo stacca da un’unità preesistente e ne sancisce la separatezza. La proiezione nell’altro di ciò che si rifiuta in sé, risulta quindi preceduta dalla scelta di ciò che di nostro si intende escludere e che, proprio in quanto nostro, ha bisogno di essere definito come altro per essere negato.

Nel simbolo biblico del capro espiatorio che, caricato dei mali e delle colpe di un popolo viene sacrificato e mandato nel deserto, è già evidente il momento della individuazione delle proprie colpe (e di ciò che si vuole negare) e il passaggio di queste in qualche cosa che sia altro da sé. L’essere altro, come concretizzazione simbolica di ciò che di nostro si rifiuta, deve diventare un essere altro originario, che giustifichi di per sé stesso l’esclusione e cancelli la colpa di questo atto. Di qui la scelta del capro che, pur rappresentando un valore per il popolo che lo sacrifica, conserva il carattere di oggettualità e materialità animale.

Finché esisteva il sacrificio umano, la proiezione delle proprie colpe e dei propri mali in un uomo scelto, consapevole della scelta che veniva fatta su di lui, conservava un carattere soggettivo al sacrificio stesso: il popolo intero si riconosceva nel sacrificato e si sacrificava con lui, attraverso di lui, nell’espiazione delle proprie colpe, o come atto propiziatorio. Nel momento in cui viene sostituito all’uomo animale, si è imparato ad oggettivare in qualcosa d’altro, di diverso, la parte di sé con cui non si riesce a convivere; si è imparato a cancellare, nel momento stesso dell’oggettivazione, la responsabilità dell’atto oggettuale. La scelta di scaricare sulle spalle del capro le proprie colpe e di « allontanarlo dai luoghi abitati», assume quindi un duplice significato: da un lato, il capro, in quanto pura oggettualità, corporeità animale, non ha il potere di oggettivare chi lo oggettivizza: porterà quindi nella sua oggettualità, nel corpo, le colpe di cui è stato caricato; dall’altro, ciò significa che l’uomo tende ad escludere da sé, e a concretare in un altro corpo, tutto ciò che testimonia la presenza della sua oggettualità, cioè della sua materialità, corporeità passiva, che può essere sua solo in seguito ad un processo di appropriazione. Per appropriarmi del mio corpo e pormi come una soggettività di fronte all’altro, vivo in una contraddittorietà che non mi dà mai per garantita né la conquista della mia soggettività né l’oggettivazione definitiva dell’altro.

Nel momento in cui l’altro è corpo, passività assoluta, io affermo la mia assoluta soggettività. Il capro come corpo, animalità, materialità che non può soggettivarsi, non potrà che allontanarsi con il carico della oggettualità di cui mi sono sbarazzato. Il suo sacrificio non avrà nemmeno il potere di mettere in discussione – attraverso la colpa – la mia soggettività.

La tecnica del capro espiatorio, da strumento deresponsabilizzante di un popolo intero, è diventata l’arma del potere che, attraverso la scelta e l’esclusione di gruppi di «indesiderati», riesce a mantenere il valore delle proprie posizioni. La nostra società si è evoluta tecnologicamente e ha pianificato e organizzato delle aree di compenso che le consentano l’espansione del suo tecnicismo produttivo. Ciò significa che ha tentato di risolvere le contraddizioni da essa stessa create, decidendo e programmando, di volta in volta, su quali gruppi concretarle e negarle per allontanarle ed escluderle. Solo l’esclusione delle proprie contraddizioni interne consente la programmazione dell’ideologia dell’abbondanza su cui si fonda la reale penuria della società del capitale.

In una realtà in cui l’abbondanza non sia per tutti, il potere significa abbondanza per pochi e penuria per molti: il che presume, da parte dei «pochi», la scelta e l’individuazione di gruppi destinati a portare il carico delle proprie contraddizioni. Scelta che viene inevitabilmente a cadere su coloro che non hanno strumenti (economici o intellettuali) per opporsi a questa arbitraria discriminazione.

Di volta in volta sono stati gli schiavi, il proletariato, i negri, gli ebrei, i «matti», le donne, i bambini, gli «irregolari», i «disadattati», gli «elementi di disturbo»… Classi, categorie, razze, definizioni scientifiche, li hanno catalogati come altri, senza permetterne una verifica e senza consentire loro di domandarsi quale sia – al di là dell’essere oggetto di sopruso – la loro identità. In questa situazione la rarità stessa del potere agisce come elemento discriminante, attraverso la fantasmatizzazione che i più – nella penuria – fanno del potere e dell’abbondanza. Quanto più il potere è «raro», tanto più sarà evidente, agli occhi dell’oppresso, la sua originaria diversità; quindi tanto più la sua situazione gli apparirà come un destino contro il quale non c’è modo, né scopo di lottare. I pochi managers del capitale, i pochi professori universitari, i pochi medici in un ospedale, ecc. hanno un potere direttamente proporzionale alla «rarità» della loro posizione. Premesso che essi si trovano nella possibilità di stabilire a priori il carattere assoluto dei valori che incarnano, è evidente che tali valori sono alimentati e conservati dal fantasma che se ne fanno i «più». Cosi se è in facoltà dei «pochi» stabilire e fissare la norma per i più, i più si trovano costretti ad aderirvi nel timore di esserne esclusi.

Ora è da chiedersi se la scelta di gruppi umani come capri espiatori, non corrisponda ad un ritorno dell’elemento soggettivo nel sacrificio stesso: se, cioè, non si tratti del tentativo, da parte di chi attua l’esclusione, di riconoscersi nell’escluso e di partecipare dialetticamente come escluso-esclu-dente all’azione discriminante. Se si esaminano gli elementi sui quali si fondano le discriminazioni razziali, classiste, ecc., ciò che risulta evidente è il carattere oggettuale dell’escluso; e, ad un esame più attento, la sua riduzione a pura corporeità, materialità, passività. In definitiva, solo nel momento in cui riduco a corpo un’altra soggettività, posso escluderla da me: ciò significa che l’escludente si pone come soggettività pura (quindi ideologica e adialettica), proiettando nell’altro la sua oggettività. In questo senso l’esclusione di gruppi, la cui negazione consente la vita apparentemente aproblematica e acontraddittoria della nostra società, si riallaccia al rito biblico del capro, in quanto esclusione e negazione dell’oggettuale e del corporeo attraverso un corpo. Se l’escluso è corpo, l’esclusione è giustificata sul piano della necessità come affermazione dei nostri valori soggettivi. Il che consente la totale assenza di colpa e di responsabilità da parte di chi esclude.

Non a caso le categorie degli esclusi sono definite dagli escludenti con similitudini che puntualizzano il loro carattere oggettuale: il loro essere un corpo, defraudato della propria soggettività. L’ebreo ha il naso adunco dell’uccello rapace; la donna giovane e bella ha la grazia di una cerbiatta; In prostituta è una vera vacca; il negro è una bestia («rappresenta il pericolo del biologico» dice Fanon); il malato mentale è «pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo» (il che significa corpo, oscenità, spudoratezza al di fuori di ogni controllo soggettivo); il bambino è un cucciolo che fa tenerezza, ecc. Nel momento in cui queste categorie siano state fissate nella loro corporeità, non sono più in grado di mettere in discussione la nostra soggettività: la distanza che le separa dai nostri valori è incolmabile.

I rotocalchi di quest’ultimo periodo continuano ad offrirci esempi, direi paradigmatici, di quanto vado sostenendo. È ormai usuale trovare, ad esempio, in prima pagina la fotografia di un negro ucciso; nell’ultima, una donna bellissima con un bellissimo bambino in braccio che fa la pubblicità a prodotti alimentari. 1) Il negro, nella morte, viene presentato finalmente come qualcosa di accettabile: si può provare pena per lui, per il suo corpo morto. In quanto corpo, non rappresenta più un pericolo, cosi come non era stato un pericolo fino a quando aveva riconosciuto la distanza che lo separava dal bianco: fino a quando aveva accettato di essere oggettivato ai suoi occhi. Nella ribellione al bianco il negro ha ritrovato la sua soggettività, ma è morto ed è rientrato nella sola dimensione che gli è stata concessa da sempre: quella di essere un corpo. 2) La donna reclamizza il «modo italiano di essere mamma» che consiste, contemporaneamente, nella espressione stereotipata e dolcissima del suo volto aproblematico ed irreale (un bellissimo oggetto di consumo) e la sua amorosa preoccupazione nello scegliere il cibo più adatto di cui ingozzare il figlio. 3) La funzione del bambino (oltre a quella di essere un cucciolo che fa tenerezza) è simbolizzata dal suo essere un corpo che deve nutrirsi, un tubo da riempire…

Il problema del negro, della donna, del bambino in quanto soggettività e presenza reali, è del tutto inesistente. Il mondo simbolizzato in questa rappresentazione risulta perfettamente ideologico: se la presenza del negro presupponeva una contraddizione, essa viene eliminata dalla sua morte; la donna è perfettamente felice nell’essere oggettivata dall’uomo che la vuole bella, e dalla società dei consumi che la vuole una mamma «che sa»; il bambino è completamente soddisfatto del latte reclamizzato. Tre tipi diversi di esclusione, il cui risultato resta sempre la e la riduzione della sua presenza contraddittoria ad una pura oggettualità.

Che si manifesti attraverso la schematica decisione del potere che non ha bisogno di mascherare i suoi programmi agli occhi dell’oppresso; o che venga sapientemente celato o scientificamente giustificato, si tratta di un meccanismo che rivela la base su cui si fonda la nostra attuale società: l’ideologia della morte come soluzione alle proprie contraddizioni. Il negro viene ammazzato, l’ebreo è già stato bruciato, la prostituta isolata e negata nelle case chiuse, il malato mentale gradualmente annientato – lontano dagli occhi di tutti -nelle fabbriche di alienati. Questa la carriera di alcuni esclusi. Organismi e istituzioni hanno l’incarico di far sparire le nostre contraddizioni; comunque di celarle fra le pieghe delle loro strutture, dietro le mura dei loro edifici. La facciata deve restare pulita per poter continuare a vivere ideologizzando una norma, definita come precisa «linea di colore» fra un bene che si accoglie (che siamo noi) e un male che si rifiuta (che sono loro). Oltre la separatezza, i manager della società si incaricano di far accettare come biologica, naturale, irreversibile la diversità dell’escluso, cosi che sarà convinto egli stesso della necessità della sua reclusione. I tecnici hanno insegnato all’industria come creare il consumatore ideale dei suoi prodotti, attraverso l’imposizione di una artificiosa ideologia dell’abbondanza, nella quale anche il diseredato viene inglobato (la fantasmatizzazione di un’abbondanza accessibile serve come miraggio che lo compensa della realtà vissuta); il colonialismo ha distrutto civiltà e creato schiavi, imputando all’inciviltà degli schiavi la necessità della dominazione; la società ha creato le prostitute e le ha contemporaneamente stigmatizzate come vergogna sociale; la scienza medica ha creato il malato mentale che più si addiceva alla tranquillità della società (pericoloso, incomprensibile, quindi da escludere) e gli ha costruito uno spazio adatto per liberarsi della sua presenza.

Ciò che non è nella norma è motivo di scandalo e, come tale, deve essere allontanato e circoscritto (la prostituta che adesca il passante è scandalosa, ma non lo è più in una casa chiusa; il malato mentale che delira per la strada è scandalo, ma non lo è più quando è chiuso in manicomio). Lo scandalo è il segno della presenza di un problema che ha la forza della minaccia, perché può turbare l’equilibrio della nostra esistenza: circoscriverlo è segnare i confini oltre i quali non gli si permette di agire.

Limiti e confini fisici sono stati la soluzione più immediata: gli ebrei nei campi di concentramento, i negri nei ghetti, le prostitute nelle case chiuse, i matti nei manicomi. Ma la fantasmatizzazione del potere da parte degli esclusi è ciò che lo ha mantenuto in vita e che ne ha perpetuato l’azione discriminante. In questo senso, l’operazione tendente ad integrare, a ogni livello, inglobandole nel sistema, tutte le categorie degli esclusi, è l’estremo tentativo da parte del potere di garantirsi l’alimento necessario per mantenersi in vita. Se, in altri tempi, era bastato creare un’inferiorità per affermare la propria superiorità, il gioco è stato scoperto. Ma non è altrettanto facile scoprire la violenza che si nasconde dietro la faccia ambigua che invita all’integrazione. Non è il momento di essere obiettivi: l’escluso viene ora invitato ad esserlo e a dimenticare ciò che è stato fatto di lui, per partecipare – nella misura in cui il potere lo deciderà – al banchetto. L’inganno è anche troppo evidente: si troverà nuovamente chiuso in una nuova distanza di cui egli stesso sarà vittima e artefice.

Quando Pinel liberò i folli dalle prigioni, separandoli dal delinquente e restituendo loro la dignità della malattia di cui soffrivano, non ha fatto altro che spostarli in una nuova prigione in cui l’inferiorità morale del recluso era scientificamente sancita, e la reclusione scientificamente giustificata. Ciò senza che l’atteggiamento generale della società nei confronti del folle mutasse minimamente, né il tipo di rapporto, né la distanza che lo separa dagli altri.

Quali le modifiche strutturali proposte agli esclusi dal programma integrativo del potere? In campo psichiatrico tutto si riduce alla progettazione di nuovi ospedali, tecnicamente perfetti, in cui il malato continuerebbe a recitare il ruolo dell’oggetto incomprensibile, cui ci si deve, nostro malgrado, dedicare. Il problema reale del tipo di rapporto che l’attuale società deve impostare con le categorie da essa finora automaticamente escluse, verrebbe, ancora una volta, rimandato: coperto e sopraffatto da una serie di soluzioni marginali che si limitano a distogliere l’attenzione dal centro del problema. In che modo la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici potrebbe incidere sul metodo, sempre più scientificamente applicato, della violenza, che caratterizza ogni tipo di rapporto nella nostra attuale società?

Se si analizza la carriera del malato mentale, come l’espressione più evidente dell’escluso, si può riconoscere come, ben prima del suo ricovero in ospedale psichiatrico, egli sia oggetto di una violenza sistematica che lo costringe a limitare il suo spazio, fino ad annullarlo. Il nostro sistema familiare e sociale sembra specializzato nell’individuazione precoce (quando addirittura non si tratta di creazione) di deboli, sui quali concentrare l’aggressività di tutti. Quasi ogni gruppo familiare ha il suo capro espiatorio che, qualche volta, finisce in manicomio come «uomo di troppo». E il manicomio, allora, si affretta a sancire scientificamente il suo significato di «eccedenza», rifiutandogli anche la parvenza di un ruolo e riducendolo a pura oggettività: un corpo.

Perché, se non per mantenere questo rassicurante ruolo oggettivo del malato, l’istituzione psichiatrica è stata impostata su repressioni, imposizioni arbitrarie, sopraffazioni e soprusi che vanno dalla diagnosi, all’inquadramento psicopatologico, al ricovero coatto, a tutte le forme di violenza e di esclusione? Lo psichiatra ha il potere di definire il comportamento del malato con i significati psicopatologici che più gli piacciono. È quindi nella possibilità di giustificare le sue aggressioni con la necessità – di fronte agli eccessi della malattia – di un controllo terapeutico che va dal pugno di ferro al guanto di velluto, a seconda dell’interpretazione soggettiva che vorrà dare della realtà. Ma di quale realtà si parla, se attualmente non esiste una realtà malata che non sia soprattutto il risultato di un atteggiamento di esclusione e di violenza? Chi può stabilire in quale misura gli acting-out del malato sono legati alla malattia, e quanto al processo di esclusione di cui è sistematicamente oggetto? È solo lo psichiatra che può riconoscere o negare che spesso si tratta di reazioni legittime di fronte ad un potere che non lascia una sola alternativa, oltre quella del comportamento abnorme o dell’annientamento totale.

Il parallelo fra lo psichiatra come potere che produce regressione e il potere che crea schiavitù è evidente. Si tratta sempre del medesimo problema, che ormai non riesce più a nascondere il suo significato essenzialmente politico. A vari livelli, l’esclusione continua a venire attuata alternativamente come esclusione pura o come integrazione: l’escluso viene tuttora massacrato, indebolito, cosificato, divorato, sacrificato. La soluzione finale proposta da Jaspers della distruzione della Cina (un’impresa alla James Bond con i «servi» gialli che saltano in aria come fuochi d’artificio) è di piena attualità. Ma contemporaneamente l’escluso viene invitato subdolamente a dividere il potere (saranno i «pochi» ad educarlo, a loro modo, ai piaceri del «banchetto»), senza che gli venga offerta un’alternativa reale, oltre quella di essere legato ad un sistema che ha bisogno di lui per sopravvivere.

Gianni Scalia afferma, ironicamente, che la genesi biologica della malattia mentale corrisponde alla conservazione della specie biologica degli psichiatri. Il che significa che la scienza fabbrica le leggi necessarie alla sopravvivenza del potere (quindi alla sua stessa sopravvivenza) e punisce i colpevoli escludendoli dalla norma da essa stessa fissata. Per questo le categorie degli esclusi restano, testimoniando la volontà di destorificare e disumanizzare i «più» che – inconsapevolmente – contribuiscono a garantire e ad alimentare la rarità su cui poggia il potere.

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