Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – La Comunità Terapeutica e le istituzioni psichiatriche

Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – La Comunità Terapeutica e le istituzioni psichiatriche

Relazione al Convegno «La società e le malattie mentali», Roma 1968. In Atti del Convegno

Ogni nuova impostazione di problemi nasce come reazione (negazione e rifiuto insieme) ad una situazione data come fissa e definita nei suoi schemi chiusi. Ogni superamento si muove quindi nell’insofferenza di chi tende a rompere la norma da cui si sente determinato e oppresso, per costruire una nuova realtà. Tuttavia, facilmente la libertà che si respira nel momento di negazione, viene soffocata nell’ordine e nelle regole necessarie alla costruzione successiva. «Le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte» (Sartre).

In questo caso, anche la Comunità Terapeutica, come espressione di un’esigenza di rinnovamento e di rottura all’interno della realtà asilare, potrebbe rischiare di tradursi in una nuova ideologia (II termine ideologia è usato, in questo contesto, nel suo significato marxiano di falsa coscienza. Il riferimento a Sartre precisa il passaggio da un’ideologia, legata alla prassi, che si fa schiavitù nel momento in cui se ne stacca per trovare, nella falsa coscienza, la giustificazione alla propria assolutizzazione. L’ideologia, come presa di coscienza della situazione da negare, diventa quindi copertura delle nuove contraddizioni, presenti nel rovesciamento della realtà, attuato. Il termine ideologia è tuttavia usato qui solo come espressione di una coscienza mistificata, senza riferimenti al primo momento di negazione cui allude Sartre), qualora – superata la fase critica – si tramuti in un valore assoluto che non ha più bisogno di verifiche sulla realtà. Ma la realtà, proprio in quanto modificata da un’ipotesi libera e dalla negazione che questa ipotesi ha comportato, non è più quella che esigeva, sul piano della prassi, misure cui la Comunità Terapeutica ha risposto in modo immediato e reale; richiede quindi nuove ipotesi, ad un livello diverso. Quando la Comunità Terapeutica tenta, ad opera dei suoi sostenitori e in particolare di Maxwell Jones (Cfr. al proposito l’ultima elaborazione del Social Psychiatry di Maxwell Jones) di sistematizzare sul piano ideologico la propria prassi, si avverte la traduzione – in termini tecnici – di un metodo che viene proposto come modello risolutivo del problema psichiatrico e sociale insieme: l’ipotesi comunitaria rischia di assumere un valore assoluto, applicabile a situazioni e a realtà diverse.

Ora, questa necessità di assolutizzare le proprie ipotesi è espressione del bisogno di rifugiarsi nell’ideologia per coprire le nuove contraddizioni emerse dalla nostra messa in discussione, o è piuttosto espressione di ciò che il sistema sociale in cui viviamo fa di ogni movimento eversivo che si sviluppi al suo interno? Se la negazione continua a mantenersi tale, rischia di andare oltre il proprio campo specifico e di intaccare le strutture su cui il nostro sistema si fonda: in questo senso è più prudente, per il sistema, tramutare la negazione in un’affermazione riformistica (accettare cioè le modifiche implicite nella prima tappa della negazione attuata) assorbendo nella sua dinamica tutto ciò che di eversivo vi può nascere e riducendone, in tal modo, la portata e l’entità.

L’unica possibilità d’azione e l’unico modo di incidere nella nostra realtà, dovrebbe dunque essere la messa in atto di una negazione che riesca a mantenersi tale, anche dopo essere stata assorbita come affermazione dal sistema. Se le ideologie sono libertà mentre si fanno, si tratterebbe di continuare a muoversi in un terreno problematico e contraddittorio – come lo è appunto la realtà – resistendo alla tentazione di rifugiarsi nell’ideologia come sistematizzazione scientifica della propria azione, per garantirsi da ogni contraddizione e da ogni verifica.

Nella situazione psichiatrica attuale, il problema non è soltanto quello di trasformare una realtà oppressiva, violenta, mortificante dove il malato è ridotto ad essere un uomo senza diritti e senza un ruolo sociale. Anche se la maggior parte delle nostre istituzioni psichiatriche è ancora drammaticamente legata alla realtà manicomiale di tipo tradizionale, il rovesciamento istituzionale è ormai acquisito come reale- possibile. Fa quindi parte della nuova cultura che sta formandosi, seppur faticosamente, e che è stata determinata da alcune punte avanzate. Il manicomio come istituzione in cui occultare e negare la malattia mentale, cambierà velocemente faccia, perché la sua violenza è stata smascherata e dimostrata disumana, oltre che inutile: i malati mentali disturbano meno in una Comunità Terapeutica che in un manicomio tradizionale.

È tuttavia vero che ci troviamo ancora in una fase archeologica: è stato appena approvato uno stralcio di legge attraverso il quale si arriverà a considerare il malato mentale come persona da curare, e già si avvertono i primi tentativi, da parte delle Amministrazioni provinciali, di svuotarne il significato, impedendo, attraverso l’imposizione di depositi cauzionali, il ricovero volontario di quei malati che non siano ritenuti pericolosi, per premunirsi da ciò che esse ritengono un abuso del ricovero.

Ma il problema non è questo. In ogni caso – palesemente o mascheratamente violenta – l’istituzione psichiatrica resta il luogo in cui vengono gestite le devianze, in netta rispondenza al sistema sociale di cui tali istituzioni sono espressione. Il manicomio tradizionale può essere una contraddizione in una società di tipo neocapitalista e la Comunità Terapeutica potrebbe esserne la soluzione ideologica adatta. Ma il tipo di distanza esistente fra il «sano» e il «malato», fra la «norma» e la «devianza», resta sempre fissato da chi detiene il potere e stabilisce i valori.

L’azione eversiva della Comunità Terapeutica che voleva smascherare il castello dei pregiudizi scientifici su cui la psichiatria tradizionale si fonda, perde quindi ogni suo significato nel momento in cui viene assorbita come modello di una nuova realtà istituzionale, all’interno della medesima struttura. In questo modo, le nuove contraddizioni che si evidenziano non possono che venire coperte e soffocate attraverso l’ideologia comunitaria che le spiega, le scioglie e le risolve.

Ma qualora si sia riconosciuta l’istituzione psichiatrica come uno degli esempi – forse il più palese e il più drammatico – in cui il nostro sistema sociale tende a negare le proprie contraddizioni, il nostro compito diventa quello di renderle più esplicite e non di occultarle sotto nuove ideologie.

In questo senso la Comunità Terapeutica ha avuto ed ha tuttora il compito di demistificare l’ideologia del manicomio tradizionale, sotto la quale si maschera la realtà custodialisti- co-carceraria-difensiva dell’istituzione psichiatrica, evidenziando il significato politico implicito nella sua funzionalità al sistema. (A parte quanto si dirà più oltre sul problema della politicizzazione e contro-politicizzazione delle istituzioni, cfr. anche i diversi contributi in F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968; H. Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Bari 1968; R. D. Laing, La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1968.) Ma dopo quest’azione di denuncia e di demistificazione essa potrebbe rischiare di riproporsi come la giustificazione – ad un livello diverso – dello stesso meccanismo imposto dalla medesima struttura sociale: rischia cioè di agire come copertura ideologica del controllo delle devianze, la cui natura resta sempre fissata da una scienza che si rivela strettamente legata ai valori della classe dominante e che continuerebbe a fare, anche della Comunità Terapeutica, l’uso politico ad essa più confacente.

Nel rovesciamento istituzionale, attraverso la negazione della realtà manicomiale; della psichiatria in quanto scienza; del malato come espressione di una malattia incomprensibile; dell’internato come oggetto di violenza, si sono infatti evidenziati elementi che vanno oltre il particolare campo specifico specialistico, mostrando la funzionalità delle istituzioni alla struttura sociale di cui fanno parte. Ora, nel momento in cui si tende ad un’azione di rovesciamento istituzionale, si deve centrare l’attenzione esattamente su questa funzionalità che, nel nostro caso, verrebbe a coincidere con l’assorbimento, da parte del sistema, della nostra negazione precedente.

Parsons (T. Parsons, Il sistema sociale, trad. it. Cottino, Comunità, Milano 1965, p. 46) definisce le istituzioni come «un complesso di integrate di ruolo istituzionalizzate che abbiano un significato strutturale strategico nel sistema sociale in questione». Attraverso la comprensione del significato strategico dell’istituzione all’interno di un sistema, si può risalire alla individuazione del ruolo sociale della categoria, inglobata in quella particolare istituzione. Senza questa premessa di base, ogni soluzione tecnica nel campo rischia di servire da copertura alla intangibilità della base strutturale che continua a definire il significato più profondo dell’istituzione su cui ci si illude di agire.

Ciò significa che, per parlare del malato di mente e della sua istituzione specifica, è necessario conoscere la funzione sociale dell’istituzione deputata alla sua tutela e cura, se si vuole comprendere il suo ruolo sociale, implicito nel carattere stesso dell’istituzione in cui è inglobato. Mancando questa premessa, risulta impossibile distinguere l’aspetto sociale della malattia dalla malattia in sé ed il modo di dedicarsi a quest’ultima non può che risultare ambiguo.

Se il nostro sistema sociale si fonda su un complesso di istituzioni deputate a gestire i diversi ruoli di cui la nostra realtà è costituita, dovremmo sostenere che l’istituzione psichiatrica è deputata a gestire l’abnorme e tutto ciò che va oltre la linea di separazione fra i comportamenti che si riconoscono come propri della nostra particolare cultura e quelli che si ritengono ad essa estranei. Ma se si analizza la funzionalità di queste istituzioni al sistema sociale – il loro significato strutturale strategico – si scopre che l’istituzione psichiatrica è deputata ad isolare e ad escludere l’abnorme, in un’area in cui la problematicità e la pericolosità del folle non possano incidere sullo svolgersi della vita normale. La funzionalità dell’istituzione al sistema sociale di cui è espressione, ci chiarisce quindi il valore e il significato che il malato mentale ha nella nostra società: si tratta di un elemento di disturbo, da escludere. (Sul tema dell’esclusione cfr. anche F. Basaglia e F. ongaro Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale. L’esclusione come categoria socio- psichiatrica, in «Riv. Sper. Fren.», 6, 40, 1966.) Ma ciò che accomuna, in genere, questi ruoli oltre alla condizione di esclusione, è la causa della esclusione stessa: il fatto cioè di essere — più o meno clamorosamente – usciti dal processo produttivo. L’analisi delle contingenze di carriera che portano al ricovero, di cui parla Goffman, ne è un’esplicita conferma. (E. Goffman, Asylums, trad. it. F. Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 1968).

Ora, che un’istituzione del nostro sistema produttivo sia deputata alla gestione di elementi improduttivi, significa che la loro presenza nella società libera risulterebbe tanto nociva da ritenere più vantaggioso creare o mantenere aree di isolamento in cui concentrarli e negarli. Tanto più che, nel momento in cui queste aree devono venire necessariamente gestite, gli oggetti della gestione tornano ad essere immessi nel ciclo produttivo che corrisponde alla gestione stessa dell’istituzione. In questo senso il futuro del malato mentale coincide con la sopravvivenza dell’istituzione che lo segrega, il cui significato simbolico non è che l’oggettivazione totale e la morte.

La contraddizione è evidente. Grazie al livello tecnologico cui si è giunti, si tende alla riabilitazione dei malati mentali. La presunta società del benessere e dell’opulenza non può più lasciarli chiusi nei manicomi, soprattutto dopo le descrizioni e le denunce che ne sono state fatte. Ma ciò che viene loro offerto, in cambio dell’irrecuperabilità della malattia, non è che una lunga agonia, o l’alternarsi di tentativi, ogni volta frustrati, di un inserimento sociale impossibile. La soluzione tecnico-psichiatrica che tenta la riabilitazione del malato mentale è contemporanea alla sua esclusione sociale; il che significa che la nostra società – pur delegando i tecnici a riabilitarli – non sa che farsene dei malati mentali recuperati, preoccupata com’è dei problemi non risolti del pieno impiego.

L’essenziale è ciò che viene dopo il recupero: il che è un problema tecnicamente insolubile, trattandosi di una questione essenzialmente politica e sociale. A meno che, nella nostra qualità di tecnici, non continuiamo ad accettare l’uso politico generalmente fatto della scienza, continuando a sancire scientificamente la diversità degli esclusi e confermando la necessità della loro esclusione, a sola nostra tutela.

Le istituzioni psichiatriche attuali hanno un significato puramente custodialistico (difesa della società dal folle, difesa dell’elemento non più attivo, tutela della produzione). Nel momento in cui si voglia agire all’interno di una di queste istituzioni, tendendo al recupero di chi era stato escluso, non si può non tener conto del significato della funzionalità al sistema dell’istituzione stessa e dell’impossibilità, da parte di questo sistema, di recuperare gli elementi riabilitati. Un’ azione riformatrice che si presume puramente tecnica, si troverebbe ad agire da copertura a questa funzionalità cui riuscirebbe a dare soltanto una nuova faccia o una nuova veste, senza incidere minimamente sul suo significato più profondo.

Paradossalmente si può dire che il sistema produce l’esclusione dei malati di mente come elementi di disturbo sociale e, insieme, ne tenta il recupero. Ma, di fronte a questa contraddizione insanabile, esso non riconosce le proprie responsabilità, ma tende a delegare il problema ai tecnici come gli unici in grado di sanare il conflitto ormai evidente.

In questo caso, se la risposta del tecnico resta una risposta tecnica, la costruzione da lui progettata o l’organizzazione di istituzioni tecnicamente perfette, deputate alla cura e alla riabilitazione del malato mentale, si troverebbe a ridurre la portata del suo stesso intervento, mantenendosi sempre entro i limiti dell’istituzione e della sua funzionalità al sistema che, appunto, non è in grado di recepire elementi recuperati e riabilitati. Il futuro di queste nuove istituzioni, perfettamente organizzate, proiettate verso servizi ambulatoriali speciali, ospedali diurni, ospedali aperti, comunità terapeutiche, servizi di assistenza sociale, sarebbe dunque teso al recupero di malati che risulterebbero poi «abili» a sostenere attività e ruoli inesistenti e che, una volta rientrati nella società libera, non potrebbero trovare un ruolo che sostituisca attivamente quello loro proprio. Né naturalmente riuscirebbero a far fronte alla violenza e alla sopraffazione su cui il nostro sistema sociale si fonda. Tutto questo farebbe precipitare l’instabile equilibrio da essi faticosamente raggiunto, ricacciandoli nell’istituzione creata paradossalmente per la loro continua distruzione-riabilitazione. In questo modo la stessa istituzione – nata come perfettamente rispondente alle esigenze di una certa quantità di internati – non sarebbe più in grado di sopperire alle necessità di un numero sempre maggiore di elementi che vi giungerebbero come al punto di scarico delle tensioni sociali: diventando così il nuovo asilo manicomiale, la cui unica funzione torna ad essere custodialistica e difensiva.

Se si vuol agire all’interno di queste istituzioni, non si può non tener conto del doppio livello su cui si muovono i problemi. La cura del malato di mente presenta sempre due facce: la lotta contro la malattia come fatto specifico; e la lotta contro la malattia come fatto sociale, nel senso che il ruolo del malato, nella nostra società, si presenta ambiguamente confuso con quello del debole da mettere fuori gioco, da escludere, da tagliare fuori della vita sociale. Parlare di nuove istituzioni psichiatriche significa voler trovare un approccio al malato di mente che intenda agire contemporaneamente sulla malattia di cui soffre, e sull’immagine e la cultura che il malato – quindi l’opinione pubblica – ne conserva. Ma se l’azione sulla malattia come fatto specifico è una questione tecnica, l’azione sul suo aspetto sociale non può essere che politica, se è vero che il tecnico – pur potendo incidere sul formarsi di una nuova cultura che consideri il malato mentale come recuperabile — non è in grado di creare per lui un ruolo sociale soddisfacente, né una realtà umanamente vivibile. Il recupero di persone che sono già state eliminate (o che vengono eliminate) come eccedenze, come uomini di troppo in una società che non è in grado di risolvere il problema fondamentale del pieno impiego, è una contraddizione costante che mina all’interno il significato di ogni azione terapeutica.

In questo senso il tecnico che accetta di coprire con soluzioni puramente marginali la contraddizione, non fa che perpetuarla senza mai smascherarne la natura. Personalmente, potrei affrontare tecnicamente il problema, proponendone un modo di approccio i cui risultati sono stati ampiamente confermati nell’ospedale dove lavoro. Lo stato di abbandono e di violenza in cui si trova la maggior parte degli ospedali psichiatrici in Italia, è tale da richiedere interventi immediati a tutti i livelli. Ma, una volta liberalizzato l’ospedale ed instaurato un clima meno violento, meno oppressivo, meno coercitivo, quindi tecnicamente più terapeutico, ci si trova nuovamente di fronte allo stesso problema: all’impossibilità del nostro sistema sociale di recepire coloro che abbiamo riabilitato. Il futuro dei nostri degenti resta ancora solo l’istituzione.

Nel momento in cui il riabilitato non ha un posto, un ruolo sociale, non può che ritornare all’istituzione che era stata creata per la sua riabilitazione. Il che significa che l’istituzione si troverà costretta a perpetuare la violenza che voleva negare nel suo primo atto di riabilitazione.

Questa constatazione non è segno di scetticismo. È una constatazione obiettiva di fatti reali: attraverso l’azione della Comunità Terapeutica è stata messa in evidenza la gratuità della violenza usata a danno dei malati mentali, a nostra sola difesa. La nostra azione sul piano pratico ci ha dimostrato che l’immagine usuale della follia era una costruzione fatta a nostro uso e consumo. Il malato può non essere pericoloso; può non essere di pubblico scandalo; i mezzi di contenzione possono essere eliminati; la segregazione può essere abolita; la cultura della malattia mentale può essere modificata attraverso l’esistenza di strutture terapeutiche che non si fondino sulla semplice custodia. Al contrario il malato di mente è sempre pericoloso, come lo siamo tutti noi, nel momento in cui siamo considerati diversi, cioè oggetti di provocazione e di pregiudizio.

Tuttavia, una volta affrontato il problema in questo senso e smascherato il carattere esclusorio delle istituzioni psichiatriche tradizionali, si ha l’impressione di aver fatto solo il primo passo di un cammino circolare che ci riporta al punto di partenza, se non si esplicita il significato politico che va oltre ogni soluzione tecnica. La soluzione puramente tecnica si limita a riformare la facciata delle istituzioni, senza intaccarne la sostanza, continuando esse ad assolvere la loro funzionalità al sistema, quindi l’uso politico che il sistema fa di loro.

Il malato riabilitato nella sua malattia si trova immesso in una realtà in cui la violenza, i meccanismi di esclusione, lo sfruttamento, la disoccupazione che hanno avuto buon gioco nel portarlo al ricovero, si ripresentano nello stesso modo e con un’intensità ancora maggiore. Il ricoverato dei nostri manicomi provinciali appartiene al ceto sociale più povero, che non ha, di abitudine, molte alternative e ne ha ancora meno nel caso si tratti di un dimesso dall’ospedale psichiatrico. In questa situazione l’unico futuro possibile resta ancora e sempre l’istituzione che, per quanto tecnicamente organizzata e perfetta, si troverà costretta a gestire una popolazione di internati la cui unica alternativa e possibilità sociale è appunto l’istituzione. In questo caso possiamo continuare a pensare che essi siano nei ricoveri soltanto perché sono malati? Come evitare che le nuove strutture psichiatriche non diventino istituzioni violente, se dovranno imporsi come l’unica realtà concessa a chi non ha altre alternative?

Forse si potrà dire che, nelle condizioni disastrose in cui si trova la maggior parte degli ospedali psichiatrici in Italia è prematuro fare un discorso del genere, quando il pregiudizio è ancora tanto radicato da aver bisogno di urti diretti e frontali. Siamo, in realtà, ancora impregnati di pregiudizi scientifici, tecnici, economico-amministrativi che, naturalmente, sottendono intenzioni e significati esplicitamente politici. Gli esempi al proposito sono innumerevoli.

Di fronte al rovesciamento istituzionale tentato nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, i giudizi sono molto contrastanti e rivelano la natura delle resistenze verso tutto ciò che può turbare l’apparente, fragile equilibrio su cui si mantiene il sistema.

L’establishment psichiatrico – evidentemente legato al pregiudizio di ciò che scientificamente deve essere un malato mentale secondo i canoni di una scienza che, sotto la parvenza della neutralità, sa sempre sancire e difendere i valori della classe dominante – dichiara di non riconoscere nell’esperimento in atto a Gorizia l’umanità malata che popola abitualmente i nostri manicomi. Dato che l’immagine di questi malati, in parte riabilitati dall’istituzionalizzazione, non corrisponde alla descrizione classica che ne fa la psichiatria, non è la psichiatria in quanto scienza che – nel descrivere una situazione non rispondente alla realtà – debba essere messa in discussione, ma è la realtà stessa che viene messa in dubbio attraverso il sospetto che si tratti di un’« umanità selezionata». Si sostiene cioè che a Gorizia i malati mentali non sono tanto malati come lo sono i ricoverati degli altri manicomi, per poter consentire una vita razionale, tendenzialmente non violenta. Il pregiudizio scientifico non si arrende neppure di fronte all’evidenza, dimostrando come ciò che è nato come ipotesi – la scienza appunto – si ripropone come un valore assoluto che non si lascia smentire dalla realtà.

Le amministrazioni provinciali, ad esempio, di fronte al nuovo stralcio di legge che tende a liberalizzare gli ospedali psichiatrici attraverso l’introduzione del ricovero volontario, tentano di opporvisi facendo ricorso al loro pregiudizio eco- nomico-amministrativo che nasconde la difesa politica dei propri privilegi. Se il ricovero può risultare volontario, dato che il medico dovrà garantire la non pericolosità del malato, un’amministrazione provinciale diffida i medici dal farlo, se non previo deposito cauzionale di L. 100 000, successivamente ridotte a L. 50 000. Il che significa esplicitamente: il malato mentale è pericoloso; l’Amministrazione provinciale è deputata a ricoverare i malati pericolosi; se non sono pericolosi, perché l’Amministrazione dovrebbe sobbarcarsi la spesa del ricovero? Se il malato – riconosciuto non pericoloso, — è ciononostante bisognoso di cure, che paghi. Il che però si traduce concretamente: il malato non pericoloso che non possa pagare il deposito cauzionale richiesto e che debba essere ricoverato, diventa automaticamente pericoloso (con le conseguenze giuridiche che il ricovero coatto continua a mantenere rispetto a quello volontario) e la natura del suo ricovero risulterà determinata non dalla sua malattia, ma dalle sue condizioni economiche. Il pregiudizio eco- nomico-amministrativo non si arrende neppure davanti ad una nuova legge che impone l’assunzione di un diverso atteggiamento che potrebbe tramutarsi anche in un diverso uso politico dell’istituzione.

Di fronte a questi esempi, parlare dei pericoli e delle contraddizioni della Comunità Terapeutica e delle istituzioni psichiatriche future, sembra dunque assurdo e prematuro: pure solo tenendo conto del doppio livello – tecnico e sociopolitico – su cui si muovono i problemi è possibile progettare e attuare passi che abbiano un senso nella nostra realtà.

La sola risposta tecnica al problema psichiatrico si limiterebbe a modificare le asprezze più evidenti della realtà asilare, conservando il significato più profondo della sua funzionalità al sistema. Tuttavia essa ha la possibilità di mettere contemporaneamente in luce quelle che sono le contraddizioni più nascoste del sistema stesso: cioè l’impossibilità di proporre soluzioni puramente tecniche, all’interno di un sistema che esige risposte e azioni politiche. Il compito dei tecnici all’interno di questo sistema è usare le proposte tecniche come mezzi per evidenziare le contraddizioni in cui si vive. Senza questo smascheramento, che viene ad assumere un significato essenzialmente politico, ogni soluzione tecnica si riduce ad agire da copertura a problemi che non hanno niente a che fare con la malattia e con la scienza.

Per distruggere il mito della malattia mentale nel malato stesso bisogna distruggere il simbolo dell’istituzione psichiatrica nella cultura del pubblico; ed il fatto che vi siano strutture o unità psichiatriche diverse cui si possa ricorrere, potrà impedire in modo positivo la formazione di un’immagine univoca dell’Ospedale Psichiatrico. In questo senso, avendo alle spalle un nuovo Ospedale Psichiatrico (che, almeno nei primi tempi, tenderà a mantenersi vitale e a non istituzionalizzarsi) sembrerebbe più fruttuoso puntare maggiormente sulla creazione di strutture psichiatriche esterne per ora inesistenti e quindi tutte da inventare, il cui deterioramento dovrebbe risultare più lento di quanto non si presuma possa avvenire nell’Ospedale Psichiatrico, per l’assenza di immagini già codificate cui far riferimento.

C’è ancora da precisare che per quanto riguarda i servizi extraospedalieri, non esiste in Italia un’esperienza al proposito, fatta eccezione per i centri di igiene mentale che conservano però tuttora i caratteri provenienti dalla vecchia impostazione ospedaliera, o che risentono comunque dell’esistenza della struttura manicomiale alle loro spalle.

Sembrerebbe quindi, a questo punto, opportuno puntare su qualche esperienza pilota – sia in senso ospedaliero che extraospedaliero – dalla quale si possano raccogliere dati più precisi e più reali (non sempre esempi stranieri possono essere semplicemente tradotti, senza prima sperimentarli sulla nostra realtà), prima di prendere un orientamento decisivo che potrebbe risultare antieconomico ed antiterapeutico.

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