Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?

Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?

in Annali di Neurologia e Psichiatria, 61, 2,1967

Il fatto che Callieri che mi ha appena preceduto si sia riferito ai «cosiddetti» malati mentali facilita, in qualche modo, l’ingresso del mio discorso che vuole essere, appunto, una puntualizzazione sul carattere soggettivo, e quindi relativo, dell’interpretazione psichiatrica del malato mentale. È proprio la relatività di queste interpretazioni – assunte come dei valori assoluti e definitivi che hanno sancito lo status del malato come una nuova categoria – che ha evidenziato la crisi in cui è ormai entrata la psichiatria.

Si potrebbe partire dall’ipotesi che la psichiatria sia stata messa in crisi dalle istituzioni da essa stessa create, intendendo per istituzioni il complesso di regole principi norme ordinamenti ed organizzazioni su cui si fonda il corpus psichiatrico. In questo senso la psichiatria non avrebbe retto il confronto con la realtà cui si riferiva: il malato mentale, la cui malattia era stata tanto minuziosamente indagata come entità astratta, da farlo scomparire nella sua presenza reale.

Ciò si ricollega contemporaneamente ad una crisi più generale che la psichiatria, come ogni altra scienza, non ha saputo evitare: quella cioè della «soggettività», definita da Husserl come la crisi delle scienze europee che – smarrendo il senso del loro rapporto reale con l’uomo – si sono allontanate dal significato primo del loro esistere.

In campo psichiatrico questa battaglia è già stata combattuta dalle correnti antropo-fenomenologiche che rivendicavano la perduta soggettività del malato, rinchiuso e costretto nella schematizzazione nosografica della psichiatria tradizionale: l’uomo in quanto soggetto della sua stessa oggettualità non può essere rinchiuso in schemi che lo definiscono a priori, ma deve essere avvicinato di volta in volta il suo essere qui ora di fronte a noi, attraverso l’epochizzazione di tutto il dato e il prestabilito da cui è abitualmente sommerso. Questo l’assunto teorico. Tuttavia, si può riconoscere che la corrente antropo-fenomenologica abbia veramente epochizzato l’etichettamento della malattia, per avvicinare l’uomo malato al di là di ogni sovrastruttura e definizione psicopatologica? O non si è trattato piuttosto dell’immissione di un nuovo, diverso modo di approccio che si innestava sul medesimo sistema psicopatologico? Qual è stato l’apporto della fenomenologia nei confronti del malato mentale, dato che questa è l’unica realtà cui la psichiatria deve riferirsi?

Da queste premesse intendo analizzare la crisi attuale di una scienza che, pur arricchitasi nella sua evoluzione storica di elementi determinanti quali la psicanalisi e l’approccio esistenziale al malato mentale, non ha però finora modificato la natura del rapporto con l’oggetto della sua indagine, conservato e mantenuto a distanza nella stessa dimensione oggettuale e adialettica in cui lo aveva già relegato la psichiatria classica. E ciò perché sia l’uno che l’altro sono entrati solo marginalmente nella prassi delle istituzioni. In questo senso l’analisi della crisi mi porta a considerare i limiti della stessa psicanalisi e dell’antropofenomenologia che, partite come movimenti rivoluzionari nel campo psichiatrico, si sono tuttavia mantenute all’interno di una struttura psicopatologica dove, anziché mettere in discussione l’oggettivazione che era stata fatta del malato, hanno continuato ad analizzarne i vari modi di oggettualità. Si sono cioè mantenute nel sistema.

Bisogna dunque riconoscere che la realtà della psichiatria resta tuttora il malato mentale rinchiuso nelle istituzioni psichiatriche – istituzioni che vanno da quella psicopatologica a quella asilare. Quale dunque la finalità, il senso terapeutico ilei legame fra la definizione, l’etichettamento della sindrome e la chiusura del malato in un nuovo ruolo sociale nell’ospedale psichiatrico? Quale il significato reale di una scienza la cui finalità concreta risulta l’ammalato istituzionalizzato dei nostri asili? Il manicomio o a lettino dello psicanalista (nel migliore dei casi) sono davvero la sola risposta che la psichiatria possa dare al malato mentale? O non è la scienza stessa accusabile di essersi precipitosamente difesa da un problema che non può essere risolto né dai farmaci, né da nuove strutture ospedaliere, ma solo dalla decisione di non voler allontanare e negare ciò che ci problematicizza?

È questo divario, questa distanza fra la psichiatria e l’oggetto della sua indagine, che ha evidenziato la frattura ormai incolmabile fra una scienza ideologica1 – quindi aproblematica e adialettica – ed una realtà che in questa scienza non trova che un posto, appunto, aproblematico e adialettico.

Binswanger2 (in ogni occasione tendo a puntualizzarlo) parla del pericolo di seguire, in psicologia, un cammino che «allontanandosi da noi stessi, porta ad una concezione teorica, all’osservazione, all’esame, allo smembramento dell’uomo reale, con lo scopo di costruirne scientificamente l’immagine (sotto forma di un apparato, di un insieme di riflessi, di funzioni ecc.)», proponendo invece un metodo di indagine che conduca «in noi stessi non attraverso un’analisi psicologica per mezzo della quale noi ci oggettiviamo, né attraverso un’analisi caratterologica con la quale oggettiviamo le nostre particolarità individuali, ma in una maniera antropologica».

Dobbiamo riconoscere che la psichiatria ha di fatto seguito – e nei fatti continua a seguire, nonostante l’allarme dato da Binswanger – la prima strada poiché, innamoratasi di se stessa e quindi della malattia come di un’entità astratti di essa stessa partorita, ha continuato ad elaborare le sue interpretazioni ideologiche senza preoccuparsi di trovare una verifica o una smentita nella realtà. Del resto, se il malato di mostrava e dimostra di smentire in qualche modo l’etichetta-mento con cui veniva e viene tuttora definito, è sufficiente ampliare la gamma delle classificazioni, includendo una nuova definizione, un nuovo sintomo. Il conto tornava e tuttora torna sempre.

Qualora la realtà dello psichiatra venga infatti precedentemente stabilita come un valore indiscusso, quindi come l’unica misura di riferimento, lo psichiatra si garantisce a priori la possibilità di stabilire il suo linguaggio e il suo metro di giudizio come unico, chiudendo il malato nel ruolo di altro, di diverso attraverso un atto che non può che essere di prevaricazione e di violenza. Di un malato che si presenta per essere curato, la psichiatria si limita a sancire la diversità del linguaggio, senza peraltro lasciarsi mettere in discussione da una dimensione umana che, in qualche modo, sente diversa dalla propria. Se, infatti, esiste un’esatta definizione corrispondente esattamente al comportamento del malato, perché preoccuparsi di farsi da lui problematicizzare? Importante è stabilire una classificazione – più o meno moderna e dinamica – dei sintomi in cui far inquadrare ogni comportamento abnorme in modo da sedare, prima di tutto, l’ansia dello psichiatra di fronte ad un malato che riesce solo a definire «incomprensibile».

La schematizzazione della sindrome, la codificazione astratta puramente quantitativa di una serie di sintomi, la classificazione asettica dei comportamenti, le sottoclassificazioni di intenzioni morbose non ancora espresse; tutto ciò ha portato ad un aumento di interesse per la malattia in sé (che in questi termini risulta controllabile e dominabile), inversamente proporzionale all’interesse sempre più scarso portato verso il malato che, proprio per questo, continua a presentarsi in tutta la sua problematicità.

Questa dunque l’origine presunta dell’attuale crisi psichiatrica: la psichiatria come scienza ha fallito il suo scopo, essendosi limitata a codificare una malattia – quando non ne ha addirittura inventato l’espressione – senza riuscire ad incidere conseguentemente sul malato che di tale malattia è portatore.

Ma questo fallimento della psichiatria come scienza non poteva non ripercuotersi sulle istituzioni che ad essa fanno capo. Se il malato entra nell’istituzione in quanto portatore di un’etichetta più che di una malattia (e l’etichetta se la porta appresso dal suo primo slittamento dalla norma) difficilmente sarà trattato come una figura problematica. Sarà molto più semplice impostare con lui un rapporto al livello dell’etichetta con cui è stato segnato e definito; quindi un rapporto ad una sola via dato che esclude a priori ogni problematicità di uno dei termini della relazione.

La problematicità, l’ambiguità di una presenza che non si sa definire, il proporsi di comportamenti che rimandino ad una soggettività che sfugge ad ogni controllo; l’esistenza dell’abnorme come messa in discussione di ciò che è classificato e quindi innocuo nella sua prevedibilità; questi sono elementi che devono, sistematicamente, essere distrutti in un’istituzione la cui finalità è soprattutto l’accettazione della regola. Il che, tuttavia, presuppone la distruzione graduale dei medesimi elementi nello psichiatra che si trova a vivere, cosi come il malato, in una sola dimensione aproblematica, adialettica: il malato come oggetto di esclusione e di violenza (quindi privo di qualsiasi alternativa soggettiva) : lo psichiatra come soggetto di quella esclusione e di quella violenza che nessuna soggettività sarà in grado di oggettivare. L’incontro non avviene fra due soggettività che possano dialetticamente oggettivarsi, perché le parti sono già precedentemente stabilite: il signore, soggettività pura, tanto astratta e lontana che non potrà mai essere oggettivata dall’altro; il servo, oggettività definita una volta per sempre, dalla quale l’elemento soggettivo è originariamente assente.

Perché se non per mantenere questo rassicurante ruolo oggettivo del malato, l’istituzione psichiatrica è impostata su repressioni, imposizioni arbitrarie, sopraffazioni e soprusi che vanno dalla diagnosi, all’inquadramento psicopatologico, al ricovero, a tutte le forme di violenza e di esclusione? Finche lo psichiatra avrà il potere di definire il comportamento del malato con i significati psicopatologici che più gli piacciono, farà presto a giustificare le sue aggressioni con la necessità – di fronte agli eccessi della malattia – di un controllo terapeutico che va dal pugno di ferro al guanto di velluto, a seconda dell’interpretazione soggettiva che vorrà dare della realtà. Ma di quale realtà si parla se attualmente non esiste una realtà malata che non sia soprattutto il risultato di un atteggiamento di esclusione e di violenza? Chi può stabilire in quale misura gli acting-out del malato sono legati alla malattia e quanto al processo di esclusione di cui è sistematicamente oggetto? È solo lo psichiatra che può riconoscere o negare che spesso si tratta di reazioni legittime di fronte ad un potere che non lascia una sola alternativa, oltre quella del comportamento abnorme o dell’annientamento totale alla fine della sua carriera di malato.

Crisi psichiatrica, dunque, o crisi istituzionale? L’una e l’altra sembrano tanto strettamente legate da non lasciare in-travvedere quale sia conseguenza dell’altra. L’una e l’altra presentano infatti un unico denominatore comune: il tipo di rapporto oggettuale impostato con il malato. La scienza, nel considerarlo un oggetto di studio smembrabile secondo un numero infinito di classificazioni o di modalità; l’istituzione nel considerarlo (in nome dell’efficienza dell’organizzazione o in nome dell’etichettatura confermatagli dalla scienza) un oggetto delle strutture ospedaliere in cui è costretto ad identificarsi.

È dunque lecito – in queste condizioni – domandarci i limiti della psicopatologia tradizionale? O non sarebbe invece necessario – a questo punto — distruggere quello che è stato fatto, nel timore di restare invischiati in qualcosa che conservi il germe (il virus psicopatologico) di questa scienza, il cui risultato paradossale è stato l’invenzione del malato mentale ad immagine e somiglianza dei parametri in cui lo ha definito? La realtà non può essere definita a priori: nel momento stesso in cui la si definisce, scompare per diventare un concetto astratto.

Il pericolo, nel momento attuale, è che si voglia risolvere il problema del malato mentale attraverso un perfezionismo tecnico che, come tale, non può riferirsi ad un umanesimo reale e che non muterebbe quindi minimamente i modi del rapporto. Se uno dei motivi della crisi attuale delle scienze è ritenuto il tecnicismo che trascende, come finalità, l’uomo e la sua esistenza3, il malato mentale che per primo soffre di questa disumanizzazione dei rapporti, non potrà essere curato con lo stesso tecnicismo che lo fa ammalare. In questo caso lo psichiatra non farebbe che perpetuare in organizzazioni attrezzatissime e modernamente edificate o in concettualizzazioni perfettamente logiche, un rapporto che definirei metallico, da strumento a strumento, dove la reciprocità continuerebbe a venire sistematicamente negata.

Quello che traspare dall’analisi della crisi è l’assoluta incomprensibilità da parte della psichiatria della natura della malattia che – tuttora sconosciuta nella sua eziologia – richiede intuitivamente un tipo di rapporto esattamente opposto a quello finora adottato. Ciò che caratterizza attualmente un tale rapporto a tutti i livelli (psichiatra, famiglia, istituzioni, società) è la violenza4 (la violenza sulla quale una società repressiva e competitiva si fonda) con cui il disturbato mentale viene attaccato e velocemente scrollato di dosso.

Ho parlato altrove5 dell’etichettamento psichiatrico come regressione nevrotica, volendo appunto puntualizzare il carattere aggressivo di questa scienza che – anziché porsi dalla parte del malato la cui cura doveva essere la sua finalità – ne ha sancito l’inferiorità in un ambiguo gioco ad una sola via, dove la malattia assume contemporaneamente il ruolo della colpa e quello della deresponsabilizzazione.

Che cos’è se non esclusione e violenza quello che spinge i membri cosiddetti sani di una famiglia a convogliare sul più debole l’aggressività accumulata dalle frustrazioni di tutti? Che cos’è se non violenza la forza che spinge una società ad allontanare ed escludere gli elementi che non stanno al suo gioco? Che cos’è se non esclusione e violenza la base su cui poggiano le istituzioni le cui regole sono stabilite al preciso scopo di distruggere ciò che resta di personale nel singolo, a salvaguardia del buon andamento e dell’organizzazione generale?

Se questa è la base del rapporto con il malato mentale, come stupirci dei suoi eccessi, del suo rifiuto sistematico di sottostare alla costante aggressione legalizzata di cui è oggetto? O come stupirci della ribellione dei figli verso padri autoritari e dispotici, degli operai verso i padroni, se chi ha il potere può, anche stabilire la dimensione aproblematica di colui che gli è sottoposto? Noi psichiatri — che presumiamo di essere sani di mente – come reagiremmo sotto un fuoco d’armi spianate, sotto una scarica di accuse, di aggressioni, di mortificazioni che, oltre ad essere crudeli, hanno il potere di sancire il grado di inferiorità sociale e morale dell’aggredito?

Nel momento in cui lo psichiatra rinuncia a comprendere il malato e si limita a catalogarne il grado di «incomprensibilità» (si veda la testimonianza del pensiero razzista di Jaspers6), si mantiene inevitabilmente nel terreno di pregiudizi in cui l’alienazione prende forma. Ciò significa che per uscire da questa dimensione ed avvicinarsi al malato secondo un diverso approccio, lo psichiatra deve prima di tutto affrontare una lotta con se stesso per poter criticare dall’interno le motivazioni, le aggressività e le proiezioni che – come espressione della società di cui è il rappresentante -sono inevitabilmente presenti nel suo rapporto con il malato.

Per questo l’alternativa ora evidente fra la perpetuazione della violenza in questo rapporto e il superamento della crisi, risulta soltanto nell’accettazione di un pensiero dialettico che «comporti in se stesso la propria critica e il proprio superamento» (Sartre)7, se non si vuole rientrare in un nuovo schematismo di carattere più o meno progressista o più o meno riparatorio.

Cooper8 afferma che è stata recentemente scoperta una nuova malattia, ormai in voga da tempo anche da noi: l’istituzionalizzazione. E molto argutamente continua affermando che se non si può trovare un virus reale si inventa un virus sociale. Ciò conferma perfettamente il mio discorso (anche se sono io stesso uno degli importatori del termine), nel senso che la scoperta della psichiatria sociale come ultima soluzione della malattia mentale non è che un’ulteriore ma-scheratura del problema reale, dato che essa – in modo diverso perché diversi sono i tempi – continua ad oggettivare il malato, continuando a mantenerlo chiuso nella malattia come in una categoria nettamente separata da quella dei sani.

Di fronte al malato «prigioniero» nelle nostre istituzioni, violentato e distrutto nella propria identità, la «scoperta» del «virus sociale» (cioè dell’influenza delle strutture sociali nel determinismo e soprattutto nella conferma della malattia) è senza dubbio una «scoperta» che aiuta ad affrontare il malato sotto una luce diversa. Una volta, però, che si giunga ad evidenziare nello stato attuale del malato quali condizioni siano legate alla violenza e alla esclusione che agiscono su di lui a tutti i livelli, continuare ad invocare il «sociale» come il nuovo responsabile che, attraverso soluzioni appunto sociali può risolvere la situazione, è ancora una volta abdicare alla nostra responsabilità e trasferire la nostra azione da un piano reale ad uno ideologico.

E ciò poiché, superate le altre interpretazioni psichiatriche della malattia mentale, si entrerebbe in una dimensione sociologica della stessa senza mantenere una critica interna che sia in grado di conservare l’ipotesi sociologica al suo livello di ipotesi, ma trasferendole un valore assoluto per smuovere il quale sarebbe necessario attendere un nuovo rovesciamento.

Il discorso qui proposto per la psichiatria sociale è, in fondo, analogo a quello già accennato sulla validità della psicanalisi e della psichiatria esistenziale. Se questi sono da ritenersi metodi in grado di aiutarci a sfuggire ad una scienza che si è fatta «metafisica dogmatica» e che, in quanto tale non può parlare dell’uomo concreto e reale, la loro validità si dimostra nel tipo di approccio dialettico che impostano con il malato. Ma se, nel tentativo di creare una base solida alle proprie argomentazioni, si creano nuovi schemi di riferimento, il momento dialettico è già passato poiché, come dice Sartre «le ideologie sono libertà quando si fanno, oppressioni quando sono fatte»9. Il bisogno di sedare la nostra ansia ci spinge facilmente a chiudere i cerchi che noi stessi abbiamo spezzato, definendo una nostra ipotesi come un fatto che ci rassicuri della positività dei risultati ottenuti.

Finché la psicanalisi impone la problematica della storicità dell’uomo costringendolo alla crisi e alla messa fra parentesi dell’inautentico, è una scienza rivoluzionaria. Finché l’antropologia esistenziale si oppone alla psichiatria classica rivendicando la legittimità delle diverse modalità di esistenza che sfuggano ad un preciso concetto di norme, è una scienza rivoluzionaria. Ma quando l’una e l’altra, arroccate dietro il nuovo linguaggio che si sono costruite, difendono le loro posizioni senza più accettare che la realtà, l’uomo reale vi possa penetrare a contraddirle, allora non servono che come difesa di chi le sostiene e la finalità che si erano prefisse è già scomparsa dal loro terreno. In questo modo vengono a concretarsi il virus biologico, analitico, esistenziale, sociologico che, nati come pure ipotesi sostenute da un pensiero dialettico, si sono negati nell’essere stati imposti come fatti definitivi, verità dogmatiche ed assolute. La illusione di queste scienze è di «riferirsi ad un oggetto che non è reale», dove il termine «reale – come suggerisce Althusser10 — è solo indicativo: nel senso che indica che se si vuole trovare il contenuto di questo nuovo umanesimo – appunto l’umanesimo reale – bisogna cercarlo nella realtà: nella società, nello Stato ecc.».

Ebbene, la realtà della psichiatria è ancora l’escluso, l’oggetto di violenza e non sono serviti finora né le denunce dei complessi di Edipo, né le attestazioni del nostro essere-con-nella-minaccia per toglierlo dalla passività della sua condizione. Per questo, continuo a sostenere (anche se so che sarò tacciato di dilettantismo nella mia critica alla psicanalisi e di tradimento in quella fenomenologica esistenziale alla cui metodologia tuttora credo) che la psichiatria ha veramente mancato il suo incontro con il reale, dal quale non ha lasciato smentire né contraddire le proprie ipotesi.

Analizziamo pure il mondo del terrore, il mondo della violenza, il mondo dell’esclusione, se non riconosciamo che quel mondo siamo noi – poiché noi siamo le istituzioni, le regole, i principi, le norme, gli ordinamenti e le organizzazioni su cui si fonda il corpus psichiatrico – se non riconosciamo che noi facciamo parte del mondo della minaccia e della prevaricazione da cui il malato si sente sopraffatto, non potremo capire che la crisi del malato è la nostra crisi; la crisi cioè di una scienza che ha presunto di guarire una malattia senza sapere che cosa fosse. Il malato soffre soprattutto per essere costretto a scegliere di vivere in modo aproblematico e adialettico, poiché le contraddizioni e le violenze della nostra realtà possono essere spesso insostenibili. La psichiatria non ha che accentuato la scelta aproblematica del malato, additandogli l’unico spazio che gli era consentito: lo spazio ad una sola dimensione creato per lui.

A questo punto che cosa proponiamo per un nuovo, autentico approccio al malato? Innanzitutto la possibilità che egli abbia un autentico approccio con noi.

E ciò sarà possibile se il ruolo dello psichiatra nei confronti del malato uscirà dal terreno che gli è tuttora abituale, quello cioè che sancisce il suo potere nei confronti dell’altro. Che sia potere tecnico, potere fantasmatico, potere carismatico, potere istituzionale, o, nel peggiore dei casi, potere puro, si tratta sempre di potere che stabilisce inevitabilmente una distanza su chi viene esercitato, tanto più che il malato stesso – nel suo livello regressivo – lo pretende. Ma è appunto questo, e solo questo, il compito del nuovo psichiatra: rifiutare al malato l’esplicito ruolo protettivo di cui ha bisogno per «salvarsi», per sfuggire alle contraddizioni che lo assillano e che non sa dominare; rifiutare di essere il «buono» che tutto accoglie in sé e giustifica e comprende. La presenza dello psichiatra deve essere per il malato il limite della realtà, cosi come il malato deve essere la realtà dello psichiatra. Ciò significa che da una dimensione coercitiva e repressiva come quella attuale, lo psichiatra non può passare a quella della permissività assoluta: la libertà è conoscenza dei propri limiti e quindi l’azione terapeutica dello psichiatra dovrà consistere soprattutto nel rappresentare per il malato la presenza della realtà con tutte le sue contraddizioni e starà in lui far sentire i limiti oltre i quali il malato dovrà affrontarle senza fuggirle o farsene sopraffare. Lo psichiatra non può dunque difendersi (e regredire) nel suo ruolo di psichiatra che, forte degli strumenti di difesa di cui la psicopatologia lo ha dotato, lo porterebbe – in un meccanismo di malafede – a distanziarsi dal malato impostando con lui un rapporto non fra uomini ma fra ruoli. Cosi come il malato non può trascendersi e abbandonarsi (per maggiormente regredire) nel ruolo di malato, poiché lo psichiatra rifiuta di destorificarlo e di deresponsabilizzarlo.

Mi sembra che un aneddoto riportato da Sartre11 sia, in questo caso, particolarmente esplicativo. Durante la resistenza un allievo si era recato da lui per chiedergli che cosa dovesse fare: se restare con la madre che aveva già perduto un figlio in guerra e il cui marito era un collaborazionista, o se arruolarsi nei maquis. Chi lo poteva aiutare in questa scelta? Nessuno! «Venendomi a trovare – precisa Sartre – quel giovane conosceva la risposta che gli avrei dato, e io stesso non potevo dargliene altra: tu sei libero, scegli, cioè trova in te stesso».

Il malato mentale ha trovato finora nello psichiatra la dimensione in cui maggiormente regredire, se si eccettuano i casi isolati di psicoterapia individuale, dove c’è tuttavia il pericolo che l’indicazione vada verso un’integrazione al sistema sociale, piuttosto che verso la crisi e quindi la messa in discussione dei propri rapporti con i principi sui quali il sistema sociale si fonda. Inoltre il problema che viene a crearsi e che si rivela evidente a tutti i livelli, è quello della nuova dipendenza che il malato si trova ad assumere: se il malato soffre del suo non essere libero, del suo non essere «sicuro» all’interno della propria misura personale che sente al di là della norma, il più grave rischio da parte dello psichiatra è di perpetuare questa sua non libertà attraverso un legame di dipendenza. In questo senso l’alternativa che siamo in grado di proporre al malato (e in ciò ci dovrà essere all’inizio un’enorme dose di volontarismo da parte dello psichiatra che deve ingaggiare una battaglia contro se stesso e tutte le istituzioni in cui crede) è quella di aiutarlo – attraverso la possibilità che ha di contestarci – a dialettizzare la sua situazione senza esserne sommerso. E qui, ancora una volta concluderei con un affermazione di Sartre della Critique de la raison dialectique che «l’antropologia meriterà il suo nome soltanto se sostituisce allo studio degli oggetti umani quello dei diversi processi del divenire-oggetti», in cui è presente la realtà dell’oggettivazione e insieme la possibilità di arginarla attraverso la comprensione dialettica dei processi che la producono.

* Relazione all’incontro «Valore e limiti della psicopatologia tradizionale», Firenze 1967. In «.

1 Si precisa che il termine ideologia viene qui usato nel suo significato originario marxiano di falsa coscienza. Nel terreno psichiatrico il problema è stato ampiamente analizzato in questi termini da j. gabel, in La fausse conscience, Les Editions de Minuit, Paris 1962. Inoltre vedi anche f. Basaglia, L’ideologia del corpo come espressività nevrotica. Le nevrosi neura-steniche; relazione al XXIX Congresso della Società italiana di psichiatria, in «Lav. Neuropsich.», 20, 39, 1, 1967. Inoltre a. pirella, in Ideologia e dialettica come problema psichiatrico (pubblicato sulla «Rivista Sperimentale di Freniatria») che cosi precisa: «La critica della psichiatria “ideologica” (sia essa biologica o naturalistica, antropofenomenologica, psicanalitica) può condursi solo con il rovesciamento pratico, dialettico, della oggettivazione, con il completo impegno dello scienziato nelle istituzioni, nel campo sociale determinato. Al di fuori di questo impegno potrà esserci oggi la ripetizione di modelli di comportamento arcaici, come A giocare un ruolo di guaritori, baloccandosi con pseudoterapie, o la fuga verso l’ideologia, verso il regno delle astrazioni, fuga, ribadiamo, dall’impegno sociale che deriva dalla situazione contemporanea della psichiatria». Sul piano sociopolitico si veda inoltre al proposito – oltre alle opere giovanili di Marx – K. mannheim, Ideology and Utopia, Harcourt Brace, New York 1953.

2 l. binswanger, La conception de l’homme chez Freud à la lumière de l’anthrapologie philosophique, in «Evol. Psych.», 1, 3, 1938.

3 Sul problema del rapporto fra «ideologia» tecnologica e psichiatrica vedi, fra l’altro, f. Basaglia, g. f. minguzzi e f. ongaro Basaglia, Exclu-sion, programmation et integration, in « Recherches », 5, luglio 1967.

4 Vedi al proposito i lavori della scuola inglese di studi fenomenologici che fanno capo al pensiero sartriano: r. d. laing e d. g. Cooper, Reason and Violence, Tavistock, London 1964; r. d. laing e A. esterson, Sanity Mad-ness and the Family, Tavistock, London 1964; e recentemente di d. Cooper, Psychiatry and Antipsychiatry, Tavistock, London 1966.

5 f. basaglia, Autentico e inautentico nel rapporto istituzionale. L’eti-chettamento psichiatrico come regressione nevrotica. Al proposito vedi anche r. d. laing, What is Schizophrenia?, in «New. Sept. Review», London, novembre-dicembre 1964.

6 Si veda al proposito, su quanto definisco come «razzismo» riferito alla psicologia comprensiva di Jaspers in collaborazione con A. Pirella, la relazione Deliri primari e deliri secondari e problemi fenomenologici di inquadramento, Simposio sui deliri cronici, XXIX Congresso della Società italiana di psichiatria, Pisa 1966 (in Atti del Congresso).

7 j.-p. sartre, Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960.

8 cooper, Psychiatry and Anti-psychiatry cit.

9 j.-p. Sartre, Situation II, Gallimard, Paris 1948.

10 l. althusser, Pour Marx, Maspero, Paris 1965.

11 j.-p. Sartre, L’existentidisme est un humanisme, Les Editions Nagel, 1946.

Franco Basaglia Scritti I: 1953-1968 – Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?

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