Botanica della Cannabis
La tassonomia ufficiale include la Cannabis nella famiglia delle Cannabacee o Cannabinacee, e suddivide questo genere in tre specie:
Cannabis sativa, alta fino a tre metri e dalla forma piramidale;
Cannabis indica, più bassa e con un maggior numero di rami e foglie;
Cannabis ruderalis, alta al massimo mezzo metro e priva di rami.
Queste non sono specie diverse dal punto di vista morfologico, sono in realtà delle varietà chimiche ovvero a differente contenuto di cannabinoidi (vedi paragr. Fitocannabinoidi: rapporto THC/CBD).
La Cannabis è una pianta arbustiva, annuale e dioica, esistono cioè esemplari con fiori maschili ed altri con fiori femminili.
Essa è ampiamente diffusa e cresce spontaneamente in aree temperate e tropicali o è anche coltivata; in ambienti particolarmente ostili possono verificarsi casi d’ermafroditismo.
Essa presenta una lunga radice a fittone e un fusto ruvido la cui altezza varia da 80 cm a 3 m. In caso di crescita in masse fitte, le piante sviluppano pochi corti rami con gli internodi lontani, altrimenti esse presentano fitte ramificazioni, che in alcune varietà possono essere lunghe come lo stelo centrale. Le foglie sono opposte, picciolate, palmate, e sono composte da foglioline lanceolate e seghettate che inizialmente si sviluppano opposte poi, durante la fioritura, alternate. Sono composte dapprima di una fogliolina, poi di 3, 5, 7, fino a un massimo di 13, secondo la quantità di luce quotidiana. I fiori femminili, portanti il seme, sono composti da un calice contenete un ovulo pendulo e da uno o due pistilli; è nel calice che si trova la più alta concentrazione di resina ed è lì che, in caso di fertilizzazione, comincia a formarsi il seme. I fiori maschili, di color bianco-giallognolo, giunti a maturazione rilasciano il polline e la pianta maschio, giunta alla fine del suo ciclo, muore.
Breve storia
Prove dell’utilizzo della cannabis si hanno fin dai tempi del Neolitico, come dimostrato dal ritrovamento di alcuni semi fossilizzati in una grotta in Romania. I più famosi fumatori di cannabis dell’antichità furono gli Hindu di India e Nepal e gli Hashashin, presenti in Siria, dai quali prese il nome l’hashish. La cannabis fu anche utilizzata dagli Assiri, che ne appresero le proprietà psicoattive dagli Arii e grazie ad essi, fu fatta conoscere ed utilizzare anche a Sciiti e Traci, che se ne servirono anche per riti religiosi. Nel 2003 fu ritrovata in Cina una borsa di pelle contenente tracce di cannabis e di semi risalenti a 2500 anni fa.
Ganja è il termine in antica lingua sanscrita per la cannabis, attualmente associato soprattutto alla cultura creolo-giamaicana, che utilizza questo termine per indicare la marijuana, ritenuta dai Rastafariani indispensabile per la meditazione e la preghiera.
In Europa l’uso della cannabis come pianta psicoattiva è abbastanza recente, probabilmente dovuto al fatto che si diffuse maggiormente la specie Cannabis sativa mentre la Cannabis indica, più ricca di principi attivi stupefacenti è entrata in Europa molto più tardi nell’ottocento, probabilmente grazie a Napoleone, interessato a questa pianta per alleviare il dolore e per i suoi effetti sedativi.
In passato la coltivazione agricola della canapa era comune nelle zone del centro Europa; sia perché cresceva su terreni difficili da coltivare con altre piante industriali (terreni sabbiosi e zone paludose), sia perché c’era sempre bisogno di piante “oleose” e “fibrose” (tessili, carta, corde).
Durante i secoli del trionfo della vela, e delle grandi conquiste marittime europee la domanda di tele e cordami assicurò la straordinaria ricchezza dei comprensori la cui fertilità assicurava le canape di qualità migliori per l’armamento navale. Eccelsero tra le terre da canapa Bologna e Ferrara. Grazie alla qualità delle sue canape l’Italia, secondo produttore mondiale, divenne primo fornitore della marina britannica. Il tramonto iniziò con la diffusione delle navi a carbone.
Il vero colpo di grazia, la coltivazione della canapa lo ricevette a seguito della Marijuana Tax Act nel 1937, legge che diede il via al proibizionismo nei riguardi dell’uso e coltivazione della cannabis negli Stati Uniti. In seguito, il divieto si estese a numerosi altri paesi del mondo.
Tra il 1932 e il 1942 le preparazioni a base di cannabis scompaiono dalle Farmacopee britannica, americana e italiana.
Dopo la colonizzazione dell’India e la rivoluzione agricola negli Stati del sud del nordamerica calò la produzione, perché i tessili di cotone e juta distruggevano i prezzi per altre fibre. Il petrolio faceva calare anche i prezzi dei combustibili per la luce.
Dopo la prima guerra mondiale, calava di nuovo la produzione, le corde di sostanze sintetiche sostituirono pian piano le corde di canapa e si sviluppò la tecnica per produrre carta dal legno.
Durante la seconda guerra mondiale, la produzione medioeuropea e mediterranea aumentava velocemente, perché le fibre tessili e gli oli sativi erano più costosi.
In più, esisteva l’esigenza di materie prime contenenti molta cellulosa da cui poter ricavare esplosivi ottenuti producendo nitrocellulosa.
Dalla fine degli anni ’70 ricompaiono nuovamente studi sull’utilizzo terapeutico della cannabis.
Farmacologia della Cannabis
La farmacologia della cannabis è complicata dalla presenza dei numerosi cannabinoidi.
Una delle proprietà dei cannabinoidi è la grande varietà di effetti farmacologici per lo più dovuti alla loro azione nel sistema nervoso centrale; sperimentalmente di particolare importanza è la capacità di indurre analgesia, ipotermia, immobilità e l’evidente osservazione di alterazioni comportamentali nella scimmia.
E’ sulla base di questi effetti che moltissime altre sostanze sono state sintetizzate e definite come composti di tipo cannabinoide.
La pianta della Cannabis sativa L. è fonte di un gran numero di principi attivi; essa produce una complessa miscela di sostanze chimiche, più di 400, una sessantina (66) delle quali formano il gruppo dei cannabinoidi (i fitocannabinoidi), termine che li distingue dagli endocannabinoidi che sono invece molecole della stessa natura, ritrovate in molte specie animali e soprattutto nell’uomo.
Tra questi cannabinoidi il solo psicoattivo è il ∆ 9-tetraidrocannabinolo (THC); la potenza della cannabis è definita in termini di concentrazione (%) di questo principio, usato anche come sostanza di confronto per valutare la potenza delle preparazioni a base di cannabis; per gli altri costituenti vi sono ben documentati effetti biologici e potenzialità terapeutiche
Il THC è un olio viscoso, insolubile in acqua e solubile in etanolo, acetone e glicerolo.
La maggiore concentrazione di cannabinoidi si ritrova nelle estremità fiorite, meno nelle foglie e solo piccolissime quantità sono riscontrabili nel fusto e nelle radici. I livelli maggiori di THC si ritrovano nel materiale resinoso prodotto dai peli ghiandolari situati per lo più intorno ai fiori delle piante femminili. La fecondazione e la conseguente formazione del seme provocano una riduzione dei livelli di THC; quantità notevolmente più basse sono presenti nelle foglie e nelle piante maschili, ed è quasi assente nei semi.
La sinsemilla è invece il fiore della pianta che non è stata fecondata, e quindi è senza semi, e la qualità è nettamente migliore di quella con i semi.
Se nel processo di coltivazione vengono eliminate le piante maschio (prima dell’apertura dei fiori e il successivo rilascio di polline), le piante femmine non possono essere fertilizzate e non producono semi (sinsemilla è parola spagnola che significa senza semi). Dato che la resina si forma soprattutto sui fiori femminili, se questi non vengono fertilizzati dal polline, la pianta femmina continuerà a produrre fiori ed in essi i sistemi ghiandolari, con continua produzione di resina sino alla senescenza o alla morte della pianta.
Tradizionalmente il contenuto di THC è compreso nella marijuana tra l’1 e il 5 %; nell’hashish è attorno al 10-15% mentre nell’olio raggiunge una concentrazione del 30% ed anche maggiore (per ottenere 5 litri di olio con una concentrazione al 35%, occorrono circa 80 kg di cannabis).
Attualmente, le innovazioni nelle tecniche di coltivazione ( la pianta viene coltivata in massima parte in ambienti chiusi per evitarne l’ossidazione e l’inattivazione dovuta all’ossigeno, alla luce, o all’umidità e alle elevate temperature), l’utilizzazione di semi geneticamente modificati e la manipolazione dopo la raccolta consentono di ottenere marijuana il cui contenuto in THC può essere pari o superare quello dell’hashish ed in ogni caso avere derivati della cannabis di particolare potenza e pericolosità.
In agricoltura è consentita la coltivazione della canapa indiana, per la produzione di fibre, purchè a basso contenuto di THC (inferiore allo 0,5%) della Cannabis
Principali costituenti presenti nella Cannabis:
Cannabinoidi 66 Componenti azotati 27 Aminoacidi 18 Proteine 11 Carboidrati 34 Zuccheri 50 Alcoli 7 Chetoni 13 Aldeidi 12 Acidi semplici 21
Acidi grassi 22 Esteri e lattoni 13 Steroidi 11 Terpeni 120 Fenoli non cannabin. 25 Flavonoidi 21 Vitamine 1 Pigmenti 2 Elementi 9
Totale 483 componenti
Principali cannabinoidi presenti nella Cannabis
acido ∆9-tetraidrocannabinoloA
acido ∆9-tetraidrocannabinoloB
∆8-tetraidrocannabinolo
cannabinolo (CBN)
acido cannabidiolico (CBD)
cannabicromene
cannabigerolo
cannabiciclolo
cannabifurano
Fitocannabinoidi
La maggior parte delle ricerche farmacologiche si sono focalizzate sul THC e CBD.
Il ∆9–tetraidrocannabinolo (THC) è il cannabinoide principale, responsabile degli effetti psicoattivi conseguenti al fumo o all’ingestione di cannabis.
Dosi elevate di THC producono inoltre effetti allucinogeni.
Sebbene il THC sia il responsabile di molti degli effetti della cannabis, è importante ricordare che THC e cannabis non sono sinonimi.
Il THC, infatti, nella pianta non esiste come tale ma piuttosto sotto forma di acido (THCA), lo stesso vale per il CBD (CBDA). Questi due acidi nella fase di accumulo si decompongono lentamente formando le corrispondenti molecole, chimicamente neutre ma farmacologicamente attive; tale conversione è accelerata dalle alte temperature che si raggiungono quando si fuma e nei processi di cottura, anche se in misura minore.
L’isomero attivo il ∆8-THC è presente nella pianta in quantità inferiori.
L’esposizione del THC all’aria provoca l’ossidazione a cannabinolo (CBN) e altre molecole; l’emivita del THC nella resina conservata al buio è inferiore a un anno e in alcuni casi il THC scompare completamente entro due anni.
Dato che il CBN è quasi assente nella cannabis fresca, il rapporto CBN/THC potrebbe fornire utili informazioni sulla freschezza del campione.
Un altro importante principio attivo è rappresentato dal cannabidiolo (CBD), un composto con un effetto antagonista rispetto al THC (antagonista non specifico dei recettori CB1 e CB2 mentre agisce come agonista nei confronti dei recettori dei vanilloidi TRPV1 e TRPV2) .
Questo cannabinoide non è psicotropo ma contribuisce a migliorare l’azione del THC perché ne influenza positivamente la farmacocinetica e riduce gli effetti collaterali sul respiro, frequenza cardiaca e temperatura.
Il Sativex, un farmaco che si somministra per via sublinguale in forma di spray, contiene una miscela di eguale quantità di ∆9-THC e cannabidiolo (assieme ad una quantità minore di altri cannabinoidi) in considerazione della migliorata farmacocinetica ed efficacia terapeutica.
Il rapporto THC/CBD è molto importante perché è questo che determina l’azione psicoattiva della cannabis e in generale può alterare notevolmente gli effetti della droga. Date queste premesse, è ovvio che esistono diversi chemotipi di cannabis; spesso, infatti, queste piante che, per il loro aspetto e dal punto di vista botanico sembrano identiche, sono diverse dal punto di vista chimico.
Per esempio, le piante coltivate per l’ottenimento di fibre tessili hanno un contenuto predominante di CBD e solo tracce di THC (meno di 0.3%), al contrario quelle coltivate a scopo farmaceutico o per l’utilizzo illegale contengono principalmente THC, e CBD solo in tracce. La questione è ulteriormente complicata dalla coltivazione di piante con lo stesso contenuto di THC e CBD.
II THC è un composto molto instabile che si trasforma, in seguito all’esposizione all’aria e alla luce, in una serie di molecole inattive, una delle quali è il cannabinolo (CBN); quest’ultimo, ritrovato nei prodotti invecchiati della cannabis ha scarsa attività biologica (debolmente psicoattivo) ma indica il “tempo” del campione giacchè può dirsi un prodotto di digradazione.
Altri cannabinoidi relativamente abbondanti sono il cannabigerolo (CBG) e il cannabicromene (CBC), dei quali si conosce poco soprattutto su quelle che sono le loro attività biologiche.
La presenza nella pianta di altri composti non-cannabinoidi può modulare gli effetti farmacologici dei cannabinoidi stessi.
I terpenoidi, per esempio, responsabili del tipico odore della pianta della cannabis, sembra che possano influenzarne gli effetti, anche se le evidenze sperimentali sono ancora scarse.
Circa 1% in peso della pianta è costituita da un insieme di 20 tipi di flavonoidi diversi con attività antiossidante.
Usi e modalità d’uso
La canapa ha sempre suscitato interesse per le seguenti utilizzazioni: come fibra tessile, per la produzione di oli, come medicinale, soprattutto come sostanza euforizzante.
Oltre a fornire sostanze chimiche la pianta è estremamente versatile, è fonte di svariate materialità ed è utilizzabile in tutte le sue parti; per la sua coltivazione le piante devono essere a ridotta concentrazione di TCH.
I semi di canapa hanno un altissimo valore proteico e sono quindi molto nutrienti; da questi si possono inoltre ottenere oli (da usare in cucina, nei massaggi e nella cura del corpo, per vernici, per la lubrificazione di motori e per combustibili), saponi e tinte di vario tipo.
Il fusto è molto robusto ed è ottimo per ricavarne cordami e tessuti molto resistenti, e tutt’oggi viene usato nella moda.
Dalla polpa della canapa si può ottenere in proporzione più cellulosa che dagli alberi quindi è possibile produrre maggiori quantità di carta, realizzare materiale plastico e pannelli resistenti, tutti prodotti questi biodegradabili.
La canapa può anche sostituire il petrolio perché consente la produzione di un carburante vegetale e quindi ecologico.
I cannabinoidi ottenuti dalla pianta di cannabis (femmina) si consumano essenzialmente con il fumo perché meglio assorbiti, mescolati al tabacco, e sotto forma di :
marijuana una miscela di foglie, gambi, semi e fiori secchi e sminuzzati della pianta; questa miscela può essere verde, marrone o grigio scuro.
La marijuana è utilizzata in diversi modi, quello più comune è di fumarla preparando una sorta di sigaretta chiamata “spinello” ma è utilizzata anche per la preparazione di infusi o mischiata a degli alimenti. A volte è fumata utilizzando delle pipe chiamate “bong”;
hashish è la resina di colore marrone scuro che si ottiene tagliando le cime della pianta. Una volta raccolta viene seccata e pressata in mattoni o pani. La produzione di hashish è molto costosa nonostante vengano utilizzate per lo più tecniche tradizionali come lo sbattimento della pianta di canapa.
La proporzione cannabis/hashish è di 10 a 1, per cui per produrre 1 kg di hashish occorrono 10 kg di piante.
Nel commercio da strada l’hashish viene venduto in palline o in piccoli formati (tavolette, bastoncini) e poi fumato sbriciolato nel tabacco; di colore nero con provenienza da Pakistan o
Afganistan, verde o oro dal Messico.
olio di hashish; è l’estratto della resina a mezzo di solventi organici (acetone) ed evaporato. E’ una soluzione liquida, viscosa e scura, che si fuma spalmandone qualche goccia sul tabacco di uno spinello.
Quando i cannabinoidi vengono “fumati” si formano per pirolisi molte altre sostanze che contribuiscono agli effetti psicoattivi; vi è una elevata presenza di monossido di carbonio e di sostanze irritanti e cancerogene.
Data la numerosità degli elementi coinvolti è difficile dare una valutazione delle conseguenze farmacologiche e tossicologiche che possono esserci con un utilizzo acuto o cronico.
La cannabis può anche essere ingerita ma data la bassa solubilità del THC in acqua questo viene scarsamente assorbito e quindi i prodotti della pianta vengono di norma fumati e solo raramente ingeriti o vaporizzati (si utilizzano temperature elevate per liberare i principi attivi e non la combustione e si evitano così le sostanze tossiche del fumo).
La quantità e la qualità dei cannabinoidi contenuti nelle differenti preparazioni di cannabis dipendono dalla varietà della pianta, dal luogo di coltivazione, dal tempo di raccolta e dalle modalità di conservazione; comunque la maggiore quantità di cannabinoidi si ritrovano nell’olio, seguito dall’hashish ed infine dalle foglie o marijuana.
Le ultime evidenze indicano che l’attuale cannabis non ha alcuna somiglianza con quella di 30 anni fa, mostrando una potenza 10-20 volte superiore. Fino agli inizi del 1990 il contenuto di THC era intorno all’1%; oggi la forma più potente “skunk” ne contiene oltre il 30%.
Un tipico spinello oggi potrebbe contenere 60–150 mg o più di THC.
Tutto ciò non escluderebbe l’associazione tra uso di cannabis e le morti registrate per incidenti e suicidi. Per di più lo sviluppo e l’espandersi di problemi di salute mentale, come depressione, psicosi e schizofrenia potrebbero proprio essere correlati a queste modificazioni della potenza della cannabis.
Purezza
Quando si accenna alla purezza della marijuana bisogna considerare 2 elementi:
– la “forza” ovvero la potenza di questa espressa in quantità di principio attivo presente (THC) in un “prodotto” non adulterato;
– i contaminanti ovvero come è stata “tagliata”.
La potenza decresce con il tempo e dipende dalla parte della pianta usata; quindi un utilizzatore ha poche garanzie rispetto all’intensità dell’esperienza.
A volte per alterare l’aspetto ed il peso il “prodotto” viene spruzzato con vernice vetrificante.
Nell’hashish per aumentare il volume ed il guadagno del venditore vengono aggiunte altre sostanze che poi vengono fumate con la resina: tinture, acqua ragia, tranquillanti, sterco animale.
Gergo
Spinello, cannone, canna, joint; i fitocannabinoidi vengono anche fumati in pipe particolari, dette shilom.
Consumo
Il consumo mondiale di sostanze illegali è aumentato notevolmente dagli inizi degli anni 1990.
Nel 2007 si è stimato che il numero dei consumatori di sostanze d’abuso fosse di più di 200 milioni di persone; di questi:
— 158.8 milioni facevano uso di cannabis;
— 24.9 milioni consumatori di amfetamine;
— 15.6 milioni consumatori di oppiacei;
— 14.3 milioni consumatori di cocaina;
— 8.6 milioni consumatori di ecstasy.
Anche se la cannabis risulta essere la sostanza d’abuso più frequentemente e diffusamente utilizzata, il vero problema è dovuto all’utilizzo illegale collegato ad altre sostanze, come l’eroina e la cocaina.
Farmacocinetica e metabolismo
Nell’uomo la dose di THC necessaria per produrre i suoi effetti varia tra 2 e 20 mg.
Quando la cannabis viene fumata, il THC è rapidamente assorbito, è riscontrabile nel plasma nel giro di pochi secondi e qui raggiunge un picco dopo 3-10 minuti. Ogni “puff” (aspirazione) rappresenta una sorta di bolo della sostanza che viene rilasciata nel sistema circolatorio attraverso l’estesa via capillare che circonda gli alveoli polmonari.
Il sistema nervoso centrale viene raggiunto dal composto in circa 5 min.; si stima inoltre che solo 1% di THC contenuto in uno spinello si ritrova nel cervello.
Gli effetti del fumo della cannabis iniziano nel giro di qualche minuto, raggiungono il massimo intorno ai 20 minuti e permangono per due – tre ore.
Quando la cannabis, invece, viene “mangiata” gli effetti sono più lenti ma permangono più a lungo, raggiungendo il massimo dopo tre – quattro ore dall’ingestione e scomparendo dopo sei – otto ore.
Per ottenere i maggiori effetti dalla “inalazione” del fumo di marijuana è importante trattenere a lungo il fumo nei polmoni.
La percentuale di THC presente nello spinello che raggiunge il flusso sanguigno oscilla tra il 10 e il 50%. Circa il 30% della perdita è dovuta al fatto che la molecola è bruciata durante il fumo, perché assorbita in parte o perché resta bloccata nella sigaretta.
I fumatori di cannabis inesperti e saltuari assorbono approssimativamente il 10–14 % del THC disponibile, mentre gli utilizzatori regolari assorbono una quantità doppia, probabilmente perché acquisiscono una tecnica nel fumare più efficiente che consente loro di trattenere il fumo nei polmoni più a lungo.
Per quanto riguarda gli altri cannabinoidi, la quantità assorbita oscilla tra il 30% per il CBD e il 38% per il CBN.
Il metabolismo del THC ha inizio dopo circa 10 minuti ed avviene nel fegato con il coinvolgimento di diversi enzimi, alcuni dei quali sono inibiti dal CBD (che può quindi alterare il suo metabolismo). Il THC genera 7 metaboliti maggiori e circa 25 altri metaboliti potenzialmente attivi.
Il THC è inoltre trasformato in una molecola non-psicoattiva, che è escreta nelle urine. Solo tracce dell’originale THC possono essere riscontrate nelle urine.
Poichè il THC (come tutti i cannabinoidi) è una molecola altamente solubile nei grassi, presenta una estesa distribuzione e i suoi livelli plasmatici di diminuiscono rapidamente dopo 30 minuti. Inoltre, i suoi principali metaboliti sono eliminati lentamente dal corpo poichè sono accumulati nel tessuto adiposo e da qui lentamente rilasciati nel flusso sanguigno. L’eliminazione completa si ottiene, infatti, dopo cinque settimane.
Pertanto un utilizzo ripetuto della cannabis porta ad un accumulo di cannabinoidi nei tessuti ricchi di lipidi, compreso il cervello.
L’elevata liposolubilità dei cannabinoidi e la lenta eliminazione dall’organismo li distingue da altre sostanze come ad es. l’alcol; tra l’altro la lenta eliminazione del THC spiega anche la ridotta intensità della sindrome astinenziale e la ragione per cui gli esami tossicologici urinari possono risultare positivi per molto tempo.
Effetti acuti
Una delle proprietà dei cannabinoidi è la grande varietà di effetti farmacologici da essi prodotti ma che dipendono anche dal soggetto, dalle aspettative, dalla qualità della cannabis, da quanto è “tagliata”, dal modo di fumare, dalle circostanze.
Come prima riportato i cannabinoidi sono di norma assunti attraverso il fumo o, meno frequentemente, ingeriti o vaporizzati.
L’esistenza di un complesso sistema degli endocannabinoidi presente nell’organismo e l’interazione tra i fitocannabinoidi e questo sistema spiega i numerosissimi effetti della cannabis che influenzano il movimento, la coordinazione, la reattività, la memoria, l’apprendimento, gli effetti di ricompensa ed anche la possibilità di indurre dipendenza.
Le regioni cerebrali implicate in questi effetti sono particolarmente ricche di recettori per i cannabinoidi ai quali si legano ed è questo legame che consente di avviare gli effetti.
A piccole dosi la cannabis produce euforia, sedazione, rilassamento, assopimento e in un certo senso questi effetti sono simili a quelli causati dall’alcol.
Ad alte dosi il THC produce effetti allucinogeni.
In linea generale, tenendo conto delle molteplici variabili che danno l’effetto finale, il soggetto avverte:
• un senso di euforia, rilassamento e benessere;
• in un contesto sociale, la tendenza ad una maggiore loquacità e risate contagiose (basta molto poco, e spesso senza alcuna ragione apparente, che scoppino risate incontrollabili);
• la sensazione di avere una maggiore sensibilità fisica ed emotiva; il pensiero pare più libero e più “creativo” del solito e si possono avere condizioni di introspezione e trasognanti e il rilassamento può indurre stati soporosi (sonnolenza) o un vero sonno.
Altri segni sono caratteristici dello stato di intossicazione da cannabis:
– l’aumento del battito cardiaco, più consistente nei primi 10–20 minuti dopodiché scende rapidamente;
– la pressione aumenta quando la persona è seduta e diminuisce quando sta in piedi (ipotensione posturale) causando debolezza e vertigini;
– l’arrossamento congiuntivale, mentre il diametro pupilare non subisce modificazioni;
– secchezza delle fauci (bocca e gola si seccano);
-“senso di fame” per stimolazione da parte dei cannabinoidi del centro dell’appetito e del sistema della gratificazione; mangiare diventa particolarmente gustoso, piacevole.
La cannabis, data l’azione allucinogena, può determinare distorsioni visive, uditive, del tempo e dello spazio ed intensificazione delle esperienze sensoriali (incremento della acuità visiva, sagome colorate, i suoni si “sentono in maniera più accentuata o distorti ed è tipico il riportato piacere nell’ascoltare la musica); non si possono poi escludere effetti acuti soggettivi in relazione anche alla dose di THC assunta.
La memoria a breve termine e l’attenzione sono compromesse; pensare o concentrarsi diventa molto difficile.
L’alterazione della coordinazione motoria è spesso molto visibile con una andatura da “fatto”, da ubriaco; i riflessi sono rallentati.
L’alterato stato fisico e mentale prodotto dalla cannabis rende di particolare pericolosità, per se e per gli altri, guidare qualsiasi tipo di veicolo controllare apparecchiature complesse. In uno studio condotto dalla NHTSA, una singola dose moderata di marijuana mostrava di danneggiare la performance nella guida; comunque, gli effetti di una dose di marijuana anche bassa, ma associata con alcol, erano marcatamente maggiori di quelli osservati con la sostanza assunta da sola.
I parametri che indicano la capacità di guida includono i tempi di reazione, la frequenza della ricerca visiva e l’abilità a percepire e/o rispondere alle modificazioni della velocità relativa di altri veicoli.
Eseguire compiti impegnativi dal punto di vista intellettuale o creativo può risultare inutile o anche illusoriamente produttivo.
Possono presentarsi inoltre effetti di cattivo umore (la cosiddetta paranoia) e questo soprattutto nei consumatori inesperti in seguito all’assunzione di quantità consistenti, in dipendenza dal precedente stato emotivo del consumatore o se il contesto ambientale non è favorevole.
I più comuni di questi effetti sono ansia e paranoia, depersonalizzazione (una perdita del senso dell’identità personale o dell’auto riconoscimento), panico, reazioni disforiche con disorientamento, depressione, delusioni, illusioni e allucinazioni.
Tutti questi effetti generalmente scompaiono dopo poche ore
Effetti acuti (subito dopo l’uso)
– alterazione della memoria a breve termine
– alterazione dell’attenzione, del giudizio, ed altre capacità cognitive
– in coordinazione motoria e dell’equilibrio
Effetti persistenti (che durano più a lungo ma potrebbero divenire permanenti)
– alterazione della memoria e della capacità di apprendere
Effetti a lungo termine (cumulativi e potenzialmente permanenti dopo un uso cronico)
– sviluppo di dipendenza
– aumentato rischio di bronchiti croniche, tosse ed enfisema
– aumentato rischio di tumori cerebrali, polmonari e cavo orale.
Marijuana, la memoria e l’ippocampo
Il danno (la disfunzione) che la marijuana provoca alla memoria a breve termine sembra sia dovuto all’alterazione da essa determinata nel modo in
cui l’informazione è processata nell’ippocampo, un’area cerebrale responsabile della formazione della memoria.
Test di laboratorio su animali trattati con THC mostrano la stessa ridotta capacità di rispondere a compiti (che richiedono la memoria a breve termine) riscontrata in ratti cui erano state distrutte le cellule nervose del loro ippocampo.
Inoltre, i ratti trattati con THC presentavano le maggiori difficoltà con i compiti richiesti precisamente nel momento in cui la sostanza stava interferendo con le
normali funzioni delle cellule dell’ippocampo.
Come nelle persone anziane, che normalmente perdono i neuroni dell’ippocampo e si riduce così la loro capacità di ricordare gli eventi, l’esposizione cronica al
THC può sollecitare la perdita degli stessi neuroni come correlata all’età.
In una serie di studi, ratti esposti al THC ogni giorno per otto mesi (approssimativamente pari al 30% della loro vita), quando venivano esaminati ad una età tra l’undicesimo ed il dodicesimo mese mostravano perdite cellulari nervose uguali a quelle di animali di età doppia ma non esposti alla sostanza.
Effetti cronici
Vi sono poche evidenze di danni conseguenti ad un uso moderato.
Decessi direttamente correlati alla cannabis sono rari.
Inoltre, maggiore è la potenza della sostanza e l’uso continuo maggiore è la possibilità che si sviluppi il quadro clinico di un stato di dipendenza.
Le basi neurobiologiche che spiegano la possibilità dello sviluppo di dipendenza sono le seguenti:
— in animali da laboratorio sono state osservate la presenza di tolleranza, astinenza e dipendenza psicologica in vari test anche se le dosi erano elevate e l’assunzione era diversa dal fumo;
— il THC (come altri cannabinoidi di sintesi) dimostra di indurre nell’animale, l’auto-somministrazione intravenosa o intracerebrale;
— il fenomeno della place preference; gli animali hanno la propensione ad auto somministrarsi il THC sia nella VTA che nel nucleo accumbens;
— aumenta la frequenza di scarica (l’attività) dei neuroni dopaminergici che vanno dalla VTA al nucleo accumbens attraverso l’interazione con i CB1 con conseguente aumento dei livelli extracellulari di dopamina nel nucleo accumbens; riduce la soglia della ricompensa dopo stimolazione elettrica un fenomeno che implica l’attivazione del sistema mesolimbico;
— i recettori CB1 sono presenti sui neuroni della VTA e mediano questi effetti come risultato di una inibizione del rilascio di GABA da parte dei cannabinoidi (stesso meccanismo è stato postulato anche per gli oppioidi); complesse sono le azioni di inibizione anche sui terminali glatammatergici presenti nel nucleo accumbens o nella stessa VTA.
Di certo sia la VTA che il nucleo accumbens sono entrambi siti degli effetti di ricompensa dovuti ai cannabinoidi e l’effetto finale dell’aumento della concentrazione di dopamina nel nucleo accumbens si pensa sia responsabile della capacità di indurre dipendenza
Vedi capitolo Sistema degli endocannabinoidi.
La marijuana è unica ?
Una larga parte della popolazione generale ha avuto esperienze personali con la marijuana e la maggior parte di questi non è diventato dipendente.
Molti possono trovare sorprendente il fatto che qualcuno possa essere divenuto dipendente di una sostanza che essi stessi hanno provato e dalla quale si sono facilmente allontanati o hanno smesso di farne uso; essi pensano che la dipendenza da marijuana debba essere qualitativamente differente dalla dipendenza da altre droghe, come l’eroina e la cocaina e che richiede particolari uniche modalità di trattamento.
Gli individui che sviluppano problemi con la marijuana potrebbero invece essere diversi da coloro i quali non li sviluppano e questo fenomeno è stato osservato anche con le altre sostanze d’abuso.
L’osservazione di quanto accade con l’uso di alcol e la dipendenza dà dimostrazione di questo.
La grande maggioranza degli americani ha provato l’uso di alcol e continua a bere alcolici regolarmente. Comunque, solo una percentuale stimata tra il 10 e 15% dei bevitori sviluppano problemi e solo alcuni di questi hanno bisogno di trattamento per i problemi connessi.
Questo è vero ugualmente per quelli che hanno provato cocaina o eroina.
Detto questo, la dipendenza da marijuana tende ad essere meno grave che quella osservata con la cocaina, gli oppiacei o l’altro. Complessivamente gli individui con dipendenza da marijuana presentano pochi criteri da dipendenza secondo il DSM; l’astinenza non è drammatica; e la severità delle conseguenze associate all’uso della sostanza non sono così estreme.
Comunque, l’apparente minore severità della dipendenza da marijuana non significa necessariamente che per i dipendenti da questa sia più facile superarla.
Molti fattori intervengono a determinare gli effetti fisiologici di una droga – incluse la disponibilità, la frequenza e la modalità d’uso, la percezione della pericolosità ed il costo – e tutti questi possono contribuire alla forza della dipendenza. Il basso costo della marijuana, il frequente utilizzo giornaliero della sostanza, le conseguenze meno drammatiche e l’ambivalenza possono incrementare la difficoltà a smettere. Sebbene sia complesso determinare la relativa difficoltà di cessazione dalle differenti sostanze d’abuso, la rivisitazione della letteratura relativa al trattamento suggerisce che l’esperienza degli utilizzatori della marijuana può stare alla pari con quella dei dipendenti da altre sostanze.
Noi abbiamo già altrove argomentato e qui reiteriamo il concetto che la dipendenza da marijuana è molto più simile che diversa da quella di altre tossicodipendenze, così come chiaramente indicano sia esperimenti nell’animale e nell’uomo che la letteratura epidemiologica e clinica. Parimenti ad altre sostanze, i fattori sociodemografici, ambientali, genetici e forse neurocognitivi contribuiscono al rischio dell’abuso di marijuana. Le ragioni per la ricerca di un trattamento correlato alla marijuana appare simile a quelle per altre sostanze così come la percentuale di risposta ai trattamenti appare simile a quella osservata per altri tipi di dipendenza da droghe.
In Budney A.J. et al., Marijuana Dependence and Its Treatment, Addiction Science & Clinical Practice, NIDA, december, 2007.
Altri effetti
Sistema immunitario
Il fumo della cannabis altera la funzione dei macrofagi polmonari coinvolti nella difesa contro gli agenti patogeni inalati .
L’utilizzo della cannabis non è associato alla progressione dell’AIDS in persone HIV positive.
L’azione dei cannabinoidi è di tipo inibitorio.
Vedi capitolo Sistema degli endocannabinoidi: recettore CB2.
Apparato respiratorio
Il fumo di cannabis contiene gli stessi componenti del fumo di tabacco, sebbene la quantità di materiale particolato (catrame) e carcinogenico risulti maggiore; per esempio la quantità di catrame che si deposita sui polmoni risulta essere fino a quattro volte superiore. Queste differenze sono dovute al fatto che i fumatori di cannabis inalano un volume maggiore e in modo più profondo, trattenendolo anche più a lungo rispetto a quelli che fumano tabacco.
Gli effetti cronici del fumo della cannabis sono simili a quelli del fumo di tabacco.
L’utilizzo regolare può produrre cambiamenti infiammatori cronici nel tratto respiratorio, provocando un aumento dei sintomi della bronchite cronica, quali tosse, difficoltà respiratorie e catarro. Tuttavia, poiché i fumatori di cannabis fumano anche tabacco non è poi così semplice distinguere gli effetti della cannabis da quelli del tabacco sulla funzionalità polmonare ma entrambi aumentano vicendevolmente i rischi. Inoltre secondo una ricerca presentata dalla American Thoracic Society (Le scienze, 2006,26,5) il fumo della marijuana non sembra correlato ad un aumento dello sviluppo di cancro al polmone; la ragione risiederebbe alla capacità del THC di stimolare l’autodistruzione delle cellule senescenti, rendendo così più improbabile la loro trasformazione tumorale.
Carcinogenicità
Non c’è nessuna dimostrazione diretta che il fumo di cannabis causi il cancro, ma non si può escludere che esso rappresenti un fattore di rischio importante nello sviluppo del cancro delle vie respiratorie. Gli studi a riguardo sono molto contradditori, tuttavia l’analisi di biopsie prelevate da fumatori di crack, cannabis e tabacco hanno evidenziato diverse alterazioni biochimiche e genetiche, importanti indicatori di cambiamenti pre-cancerosi.
Se da un lato non esiste alcuna chiara dimostrazione di una maggiore incidenza di cancro delle vie respiratorie tra i fumatori di cannabis rispetto ai fumatori di tabacco, dall’altro è dimostrato l’effetto additivo della cannabis e del tabacco sulla comparsa di anomalie istopatologiche del polmone, anomalie simili a quelle che precedono l’insorgenza del cancro al polmone nei fumatori di tabacco.
Alcuni studi hanno inoltre rilevato l’associazione dell’utilizzo di cannabis durante la gravidanza e l’insorgenza di alcuni tumori nei bambini, come astrocitoma, rabdomiosarcoma e leucemia acuta non linfoblastica.
Sistema riproduttivo
Anche se le attuali dimostrazioni sono ancora inconsistenti, è possibile però affermare che il THC inibisce la funzione riproduttiva.
Uno degli effetti a breve termine è proprio una ridotta fertilità sia nell’uomo che nella donna; inoltre gli effetti sulla spermatogenesi e sulla produzione di testosterone potrebbero essere significativi in coloro che hanno già problemi di fertilità, per esempio quando si ha già un basso numero di spermatozoi.
Studi di medicina prenatale suggeriscono che l’utilizzo di cannabis provoca gestazioni più brevi, soprattutto nelle madri adolescenti e infanti con basso peso alla nascita.
Sistema gastrointestinale
Molteplici sono le azioni dei cannabinoidi su questo sistema anzi è proprio in questo campo che essi hanno trovato applicazione terapeutica come farmaci (Dronabinolo) antiemetici, azione che si ritiene correlata alla stimolazione dei recettori CB1 situati nei neuroni nell’area postrema e nel nucleo del tratto solitario.
Essi riducono la motilità intestinale per inibizione del rilascio di acetilcolina dal sistema nervoso autonomo tale da poter ipotizzarne l’uso nella sindrome del colon irritabile, nella diarrea resistente, nell’ulcera gastrica (per riduzione della secrezione acida) o l’utilizzo di loro antagonisti nell’ileo paralitico.
Sistema cardiovascolare
I cannabinoidi inducono tachicardia, uno degli effetti più frequentemente riportato dagli assuntori, assieme ad ipotensione ortostatica per vasodilatazione periferica (forse per azione sui recettori CB1 endoteliali). Tale effetto può rappresentare un rischio per coloro i quali soffrono di disturbi cardio-circolatori.
Effetti psichiatrici
Tra le più preoccupanti reazioni collaterali c’è la possibilità di indurre stati psicotici, sebbene non sia perfettamente chiara la relazione causale tra lo stato mentale del soggetto e la cannabis; l’utilizzo regolare di questa può, in alcuni soggetti, sviluppare problemi di salute mentale, più o meno gravi, inclusi franchi quadri psicotici come la schizofrenia. La disponibilità attuale di cannabis ad elevata potenza può favorire l’insorgere di tale condizione.
Non si può dire con certezza che la sostanza sia la causa primitiva del problema ma è certo che la cannabis può “slatentizzare” mettere in luce preesistenti e non rivelate fragilità mentali.
In alcuni soggetti può instaurasi, per le stesse ragioni, la cosiddetta “sindrome amotivazionale” caratterizzata da una continua stanchezza e mancanza di stimoli, di produttività, di impegno, di indifferenza per i rapporti sociali e per il futuro.
Il sistema degli ENDOCANNABINOIDI
La conoscenza di come agiscono nel nostro organismo sia i cannabinoidi endogeni (endocannabinoidi) che i derivati della cannabis (marijuana) o i cannabinoidi sintetici, e se questi composti possono avere utilità terapeutica, è stata possibile grazie alla scoperta e alla caratterizzazione del sistema degli endocannabinoidi iniziata circa 40 anni fa. Tale sistema è fisiologicamente coinvolto nell’analgesia, nell’apprendimento, nella memoria, nell’attività motoria, nell’appetito, nella nausea nel vomito e nel controllo
del sistema immune; non ultimo, nel sistema della gratificazione
Linea temporale dell’uso, delle scoperte scientifiche sulla cannabis:
Reperti di corde di canapa 8000 anni a.C.
Uso medico in Cina 2700 anni a.C.
Uso religioso in India 2000 anni a.C.
Uso medico in Oriente (Arabia) 1000 anni d.C.
L’occidente apprende della sua bioattività
Scoperta del THC 1964
Scoperta dell’inibizione dall’adenilciclasi 1984
Accoppiamento alle proteine G 1986
Scoperta del legame recettoriale 1988
Mappatura dei recettori e clonazione dei CB1 1990
Anandamide 1992
clonazione dei CB2 1993
Primo antagonista (SR14716A) 1994
Astinenza indotta 1995
Animali knock-out 1998
Sino alla identificazione della corretta struttura chimica del THC, le ricerche sulla marijuana interessavano pochi scienziati; tra l’altro l’elevata lipofilia naturale di questi composti sembrava sufficiente a giustificare i loro effetti come conseguenza della capacità di dissolversi, di interagire aspecificatamente con i lipidi delle membrane e di alterarne quindi le funzioni.
Le scoperte successive, come riportato nello schema storico, hanno non solo mostrato la specificità d’azione dei cannabinoidi, perché agiscono su specifiche strutture (i recettori dei cannabinoidi) ma complessivamente è stato “composto” tutto il sistema dei cannabinoidi con i “propri” recettori, i ligandi endogeni (gli endocannabinoidi), la sintesi, il rilascio, il reuptake, il metabolismo di questi, la modalità d’azione.
Tutto ciò ha inoltre stimolato, negli ultimi anni, la ricerca e la sintesi di numerose sostanze analoghe (anche questi chiamati cannabinoidi) capaci di modificare, in senso inibitorio o eccitatorio il sistema dei cannabinoidi ed avere elevate potenzialità terapeutiche.
Recettori CB1 e CB2
Il THC e tutti gli altri cannabinoidi agiscono principalmente legandosi a specifici recettori trovati sulla superficie di membrana di diversi tipi cellulari, principalmente localizzati nel cervello e nel sistema immunitario.
La densità dei recettori dei cannabinoidi nel cervello risulta 10–50 volte maggiore di quella dei recettori dei neurotrasmettitori classici, per esempio di quelli della dopamina e degli oppioidi.
Ad oggi sono stati identificati 2 recettori, anche se paiono esistere altri potenziali recettori dei cannabinoidi; essi appartengono alla superfamiglia dei recettori con tipica struttura trasmembrana (i sette domini, la porzione N-terminale extracellulare, quella C-teminale intracellulare) accoppiati alle proteine G.
Il THC è un agonista di entrambi i recettori (CB1 e CB2) e mima parzialmente le azioni dei cannabinoidi endogeni.
Il Cannabidiolo non si lega con nessuno dei due recettori (ma mostra importanti azioni di tipo cannabinoide attribuite alle sue proprietà antiossidanti, alla inibizione della degradazione dell’anandamide o alla interazione con altri recettori non ancora identificati. Gli endocannabinoidi, come i fitocannabinoidi e i cannabinoidi di sintesi, presentano differente affinità e azione su tali recettori.
Il primo recettore dei cannabinoidi, CB1, è espresso in prevalenza nel sistema nervoso centrale (cervelletto, ippocampo e gangli basali – striato, globo pallido e sostanza nigra), nel midollo spinale ma anche perifericamente; la presenza di questi recettori nell’ippocampo e nella corteccia suggerisce un loro coinvolgimento nei processi di apprendimento e memoria, mentre la localizzazione nei gangli basali e nel cervelletto sembrano mediare gli effetti sull’attività motoria, coordinazione e reazione. Sempre nel sistema nervoso centrale i CB1 sono maggiormente presenti sugli assoni e sui nervi terminali ed in minor misura sui corpi cellulari; controversa è la loro presenza nella glia.
Inoltre, il sistema degli endocannabinoidi controlla la motivazione agli stimoli dell’appetito.
Diversi studi hanno dimostrato che i recettori CB1, soprattutto nello striato, nei nuclei accumbens e nella corteccia prefrontale mediano tutte le caratteristiche comportamentali e neurochimiche del THC e degli altri cannabinoidi.
In particolare, gli effetti di gratificazione, tolleranza e dipendenza fisica sono stati attribuiti alla loro interazione con gli oppioidi, glutammato, GABA e soprattutto con i sistemi dopaminergici.
I cannabinoidi agiscono nel cervello innescando processi di gratificazione molto simili a quelli che si ottengono facendo uso di altri tipi di droghe; come queste, attivano la produzione di dopamina nell’area tegmentale ventrale (VTA) attraverso l’inibizione presinaptica dei neuroni GABAergici presenti in questa area e il suo rilascio nei nuclei accumbens e nella corteccia prefrontale.
Studi con antagonisti dei CB1 hanno dimostrato l’importanza di questi recettori nell’intero fenomeno del craving; al pari è evidente l’importanza del sistema degli endocannabinoidi nella dipendenza da alcol, nella sospensione del fumo, nella perdita di peso o nell’assunzione di cocaina e oppioidi.
La presenza dei CB1 in diversi organi periferici – cuore, occhio, intestino, vescica urinaria e nel microcircolo – è in relazione, ad esempio, alla tachicardia, all’arrossamento congiuntivale, alla ritenzione urinaria e alla inibizione della motilità intestinale che segue l’assunzione di cannabinoidi e comunque alle complessive azioni su questi organi e apparati.
I recettori CB1 sono stati identificati anche nell’apparato riproduttivo sia maschile che femminile, compresi ovaie, endometrio, testicoli, spermatozoi, vasi deferenti. Recenti studi hanno dimostrato che la marijuana (il THC e gli altri cannabinoidi esogeni) agiscono durante la gravidanza e sul sistema degli endocannabinoidi di entrambe le gonadi; inoltre gli endocannabinoidi potrebbero svolgere un ruolo cruciale nell’impianto dell’embrione e nell’aborto.
Il secondo recettore, il CB2, (omologo ai CB1 per il 48%) è espresso in prevalenza nei tessuti periferici, principalmente nel sistema immunitario, milza, tonsille, timo, midollo osseo, tessuti deputati alla produzione delle cellule immunitarie.
Contengono il maggior numero di CB2 in ordine decrescente:
• i linfociti B,
• i natural-killer,
• i monociti,
• i neutrofili,
• i linfociti T8,
• i linfociti T4.
I cannabinoidi, compreso il THC, possono considerarsi degli immunomodulatori, con complesse azioni sui tipi cellulari del sistema immunologico.
L’effetto finale è immuno-soppressivo per inibizione delle funzioni dei linfociti, delle cellule natural-killer, macrofagi e mastcellule.
L’espressione di questo recettore è notevolmente alterata nei consumatori abituali di cannabis e la risposta dei linfociti T al THC e gli eventi immunologici che ne conseguono potrebbero spiegare il legame dell’utilizzo della cannabis alle infezioni opportunistiche, AIDS e il cancro delle vie respiratorie.
Il CB2 è stato rilevato anche nel cervello sano o malato e in altri tessuti se pure in concentrazioni inferiori ai CB1.
Aree cerebrali in cui i recettori dei cannabinoidi sono abbondanti
Aree cerebrali — Funzioni associate
Cervelletto — coordinazione motoria
Ippocampo — apprendimento e memoria
Corteccia cerebrale (neofrontale, giro cingolato e regione parietale) — funzioni cognitive
Nucleo accumbens — sistema della gratificazione
Gangli della base — controllo del movimento
Aree cerebrali in cui i recettori dei cannabinoidi sono meno abbondanti
Ipotalamo — regolazione della temperatura,equilibrio idro-salino, funzione riproduttiva
Amigdala — risposte emozionali, impulsività, paura
Mesencefalo — controllo motorio, controllo della temperatura, sonno e veglia
Midollo spinale — percezioni periferiche incluso il dolore
Sostanza grigia — periacquaduttale analgesia
Nucleo del tratto solitario — nausea, vomito, sensazioni viscerali
Gli endocannabinoidi
L’identificazione dei recettori cannabinoidi fu seguita dalla scoperta dei ligandi endogeni per questi recettori, denominati appunto endocannabinoidi.
Queste molecole sono derivati di acidi grassi polinsaturi ( acido arachidonico), si differenziano così nella struttura chimica dai fitocannabinoidi e sono altamente specifiche per i recettori dei cannabinoidi.
A differenza dei classici neurotrasmettitori cerebrali non sono prodotti e immagazzinati nelle cellule nervose ma prodotti, sintetizzati dai loro precursori on demand (solo quando è necessario ed è aumentata all’attività neuronale) e quindi rilasciati dalle cellule.
Dopo il rilascio sono rapidamente disattivati per reuptake nelle cellule e quindi metabolizzati. Il metabolismo di anandamide e 2-AG avviene principalmente per idrolisi enzimatica da parte della idrolasamide degli acidi grassi (FAAH) e della monoacilglicerol-lipasi (solo il 2-AG).
Nel cervello sembrano agire come neuromodulatori, inibendo il rilascio degli altri neurotrasmettitori.
Gli endocannabinoidi sino ad ora identificati sono 5:
1. l’anandamide (N-arachidonoiletanolamide, AEA)
2. il 2-arachidonoilglicerolo (2-AG)
3. il noladin etere (2-arachidonilglyceriletere)
4. la virodamina (O-arachidonoil-etanolamina)
5. il NADA (N-arachidonoil-dopamina).
Tra questi l’anandamide e il 2-AG sono quelli più caratterizzati e studiati; degli altri non sono ancora ben conosciute le azioni biologiche e il profilo biochimico.
L’anandamide agisce legandosi ad entrambi i recettori CB1 e CB2 e ai recettori dei vanilloidi (TRPV1); l’agonismo verso i CB2 è comunque basso e talvolta può agire come antagonista.
Il 2-AG è agonista di entrambi i recettori CB1 e CB2; soprattutto è attivo nei riguardi dei CB2 tanto da essere considerato il suo vero ligando.
Inoltre la sua concentrazione nel sistema nervoso centrale è quasi il doppio dell’anandamide, per cui si pensa che solo una parte di esso sia implicata nell’azione del sistema dei cannabinoidi.
Il noladin etere mostra affinità sia per i CB1 che per i CB2.
La virodamina agisce come antagonista dei CB1 e parziale agonista dei CB2 ma secondo alcuni è irrilevante la sua azione biologica.
Il NADA si lega ai CB1 e con maggiore affinità ai CB2 ma è soprattutto un’agonista dei recettori dei vanilloidi (TRPV1) (condivide con la capsaicina, un principio attivo contenuto nel peperoncino, la capacità di stimolare questi recettori) tanto da essere considerato come un importante legando di questo sistema recettoriale.
Oltre agli endocannabinoidi, altri derivati degli acidi grassi vengono definiti come sostanze tipo-cannabinoidi giacchè non agiscono sui recettori CB ma sono in grado di aumentare l’azione degli endocannabinoidi a livello recettoriale attraverso un meccanismo detto “enturage effect”; tra questi, palmil-etanolamina, stearoil-etanolamina, oleoil-etanolamina, arachinoidil-glicina, 2-lineoilglicerolo, 2-palmitoilglicerolo.
Altri endocannabinoidi, con attività di tipo cannabino-mimetico continuano ad essere scoperti.
Inoltre, piante di specie differenti dalla Canapa sativa presentano sostanze in grado di legarsi a recettori CB aprendo così nuove possibilità terapeutiche.
Meccanismo d’azione dei cannabinoidi
Un gran numero di evidenze mostrano che sia gli endocannabinoidi che i fitocannabinoidi attivando i recettori CB1 sopprimono la neurotrasmissione riducendo il rilascio di neurotrasmettitori eccitatori o inibitori, glutammato e GABA.
La loro azione differisce da quella dei classici neurotrasmettitori perché inizia là dove questi terminano.
Quando avviene l’attivazione di recettori, tipo D2, del glutammato, GABAergici, NMDA, ad opera dei rispettivi neurotrasmettitori, si avvia una serie di eventi chimici che portano contemporaneamente alla sintesi e al conseguente rilascio di endocannabinoidi dalla membrana di neuroni postsinaptici (gli endocannabinoidi sono sintetizzati per agire solo su una popolazione selezionata di neuroni e usualmente sono rilasciati solo da neuroni postsinaptici che presentano recettori CB1).
Gli endocannabinoidi diffondono nello spazio extracellulare per legarsi ai recettori CB1 presinaptici che rispondono inibendo l’ulteriore rilascio dei neurotrasmettitori.
Per questa modalità d’azione vengono detti messaggeri retrogradi.
Il successivo trasporto degli endocannabinoidi all’interno delle cellule e la loro degradazione per idrolisi enzimatica da parte della idrolasamide degli acidi grassi (FAAH) e della monoacilglicerol-lipasi (solo il 2-AG) pone termine alla loro azione.
In ogni caso l’azione operata dai cannabinoidi (generalmente inibitoria) nella modulazione della liberazione dei neurotrasmettitori, avviene perché i recettori CB1 (che presentano una prevalente presenza presinaptica) sono accoppiati a proteine G di tipo inibitorio (Gi/o); viene così inibita l’adenilciclasi, cui segue l’inibizione dei canali del calcio e l’attivazione di quelli del potassio.
L’effetto finale è appunto l’inibizione presinaptica della liberazione del neutrasmettitore e la loro azione indica che essi sono in grado di modulare la neurotrasmissione e modificare l’eccitabilità neuronale.
In linea generale, la prevalente attività modulatrice e di inibizione operata dai cannabinoidi si esprime nei riguardi:
— della funzione immune (attraverso i CB2),
— della neurotrasmissione (attraverso i CB1)
e complessivamente nei riguardi di tutte le funzioni ad essi associate.
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