Ci sono i gennaisti, i settembristi e poi ci sono quelli del lunedì. Ogni anno, ognuno di noi si promette di cambiare qualcosa nella propria vita, spesso con l’intenzione di fare il tanto atteso “salto di qualità”. Magari decidiamo di iniziare un nuovo hobby, contattare quelle persone che non vediamo da tempo, lasciare quel lavoro che ci sta strettissimo, perdere qualche chilo o eliminare una brutta abitudine. Eppure, nonostante le buone intenzioni, ci ritroviamo a settembre, al 10 febbraio, o al prossimo lunedì, e nulla è cambiato. Nonostante i mille proclami fatti davanti allo specchio o sui social, la frustrazione cresce, perché ci sembra che il cambiamento sfugga sempre. La vergogna aumenta, ci sentiamo incapaci, e spesso temiamo di aver deluso le aspettative degli altri.
Questa sensazione di “incostanza” non riguarda solo una persona, ma è qualcosa di universale. Il cambiamento è una sfida che accomuna giovani e meno giovani, uomini e donne, in tutte le fasi della vita. Perché è così difficile cambiare? Scopriamolo insieme.
La difficoltà del cambiamento: Perché è così complicato?
Il cambiamento, in realtà, va contro la natura stessa delle cose. È, in qualche modo, un atto “sovversivo” contro le leggi dell’Universo. In natura, tutti gli esseri viventi sono destinati a subire l’aumento dell’entropia (il caos, il disordine) e, di conseguenza, a essere vittime dell’inerzia. Il cambiamento richiede un costo energetico, un impegno che il nostro corpo e la nostra mente non sono sempre disposti a investire. Il non cambiamento, invece, è un modo per economizzare le risorse e mantenere il nostro sistema in uno stato di stabilità, anche se questo significa rimanere fermi.
Perché? Perché il non cambiamento è la forma più semplice di adattamento, quella che ci permette di vivere senza scosse, evitando il rischio di fallire. In questo stato di passività, non siamo più attori protagonisti della nostra vita, ma spettatori.
Eppure questo è anche un guadagno per certi versi: restando infatti dentro quella che comunemente si chiama Comfort Zone ma che in realtà sarebbe più opportuno chiamare Safe Zone siamo stretti e confinati ma ci manteniamo al riparo da quelle che sono per noi paure mortali. Il cambiamento implica invece spesso doversi confrontare con queste paure e spesso questo spesso significa fare un salto nel buio, come lanciarsi nella tempesta con una piccola barca che va alla deriva tra le onde.
Il non cambiamento come meccanismo di difesa
Il cambiamento è difficile, e spesso non basta il desiderio di migliorare per fare il primo passo. La Comfort Zone o Safe Zone ci offre una sorta di paradosso: se da un lato ci limita, dall’altro ci fornisce una forma di adattamento sicura. Rimanere dove siamo ci permette di evitare il rischio di fallire, ma ci impedisce anche di crescere.
Immagina di essere una mosca finita dentro una bottiglia vuota.
Più provi a uscire, più ti sembra difficile: si vola in tondo a caso cercando solo di uscire dalla situazione, ma si finisce sempre per sbattere le ali contro il vetro e più si continua a girare alla cieca più si perde la direzione, finendo per sentirsi sempre più impotenti e frustrati. La mosca potrebbe, a questo punto, arrendersi, restare lì dentro e aspettare che qualcosa cambi da sola. Forse, alla fine, finirà per non uscire mai più.
D’altro canto, potrebbe anche decidere di sfidare la propria paura e seguire un’altra direzione. Potrebbe percepire l’aria che entra nella bottiglia e, per quanto difficile, decidere di muoversi verso quella corrente. Un movimento controdirezionale rispetto alla confusione precedente, cercando di affrontare il buio del tunnel che la separa dalla libertà.
Ma, come ogni decisione, c’è sempre un’incognita: fuori dalla bottiglia potrebbe esserci un mondo sconosciuto. Potrebbero esserci pericoli, come un predatore, o forse non troverà nemmeno il cibo necessario per sopravvivere. D’altro canto, rimanere dentro la bottiglia, anche se limitante, offre una protezione. È un rifugio dalle intemperie e dagli altri pericoli esterni. Ma questa sicurezza, alla lunga, potrebbe anche diventare una prigione.
Questa stessa dinamica si applica a noi esseri umani. Restiamo fermi nella nostra Comfort Zone, quella sensazione di sicurezza che ci protegge dalle difficoltà della vita, ma che allo stesso tempo ci limita, ci rende statici e ci priva di possibilità di crescita. Rimanere nella nostra zona sicura può sembrare una soluzione per evitare il rischio, ma, come nel caso della mosca, ci può danneggiare nel lungo periodo.
Spesso in noi umani è il corpo il primo ad inviare segnali di malessere: attacchi di ansia, insonnia, mal di stomaco, panico, nervosismo…Possono essere campanelli di allarme di uno stato di malessere protratto che cerca di “farsi notare”: Ehiiii mi vedi? Mi senti? C’è nessuno?
Eppure, come mai se lo stare male è brutto e lo stare bene è un diritto dell’individuo tanti non cambino nonostante dicano fermamente di volerlo?
Intanto spesso non è facile trovare comportamenti alternativi “sufficientemente buoni per sé” con cui rimpiazzare i comportamenti o le situazioni che riteniamo essere fonte di sofferenza personale. Inoltre, ancora più spesso per quella che è la mia esperienza, nelle persone estremamente “resistenti” al cambiamento entrano in gioco i cosiddetti “vantaggi secondari”: ho una mia identità chiara e netta (ad esempio “lo sfigato in amore”, “quella grassa”, “la pecora nera della famiglia” etc) anche se “negativa” di cui conosco bene il copione e che quindi mi rassicura; non mi assumo in prima persona il costo della responsabilità verso possibili fallimenti tipici del mettersi in gioco attivamente; attribuisco agli altri (il fato, il partner, i datori di lavoro, la famiglia) le “colpe” del mio malessere (e quindi automaticamente perdo di vista la mia corresponsabilità verso la situazione in essere).
Infine, in alcuni casi forse in quel momento il comportamento disfunzionale che razionalmente vorremmo cambiare in realtà ci sta transitoriamente tutelando con il suo esistere da una realtà ben peggiore cui potremmo esporci. Penso ad esempio in maniera estrema alle Psicosi: inizialmente probabilmente i sintomi avevano una funzione “protettiva” verso l’individuo, poi sono stati mantenuti e sono diventati dei meccanismi rigidi che hanno privato la persona della propria libertà e flessibilità.
Quando è necessario chiedere aiuto
Non sempre è necessario o indispensabile andare da uno Psicologo o da uno Psicoterapeuta per fare un cambiamento: spesso possiamo rivolgerci ad una figura che ci ispiri con le sue azioni, un amico per gli adolescenti o un adulto ritenuto buona guida, possiamo praticare la meditazione, la Mindfulness, possiamo confrontarci con il partner o qualcuno che ci voglia bene e riteniamo possa capirci.
Quanto più invece la persona ha una struttura di funzionamento rigida, quanto meno è in grado autonomamente di affrontare le trasformazioni cui la vita inevitabilmente ci sottopone, quante meno risorse personali è in grado di tirare fuori da sé allora è possibile che sia arrivato il momento di chiedere un aiuto specializzato con cui poter esaminare i propri meccanismi di funzionamento.
Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.
(Lao Tse)